Quell’applauso è una macchia sulla divisa

Quell’applauso è una macchia sulla divisa

Quell’applauso ai poliziotti condannati è un’infamia, punto. Ma è anche un pessimo servizio alle forze dell’ordine, una sorta di rabbioso harakiri, una macchia sulla divisa. 

Anche (e non solo) perché su questo sito mi è capitato di condannare senza nessuna esitazione la guerriglia dei violenti (una minoranza prevaricatrice) – che spesso avvelena i cortei di protesta con l’idea del gioco della guerra – sento l’esigenza speculare e parallela di usare parole inequivocabili sulla incredibile celebrazione andata in onda al congresso del Sap. Una standing ovation che non mostra alcun rispetto per la morte di Federico Aldrovandi, per il dolore della madre e per l’opinione pubblica, e infine per una sentenza che chi amministra la forza dello Stato ha il dovere di rispettare più degli altri.

È il caso di ricordare che questo gesto – una sorta di apologia della vigliaccheria e dell’omertà – è ancora più grave perché è stato evidentemente premeditato: non è stato un momentary lapse of reason, un momento di buio imponderabile o imprevedibile. Era una coreografia pianificata nel dettaglio, un piccolo grande delitto di opinione: trascina dei simboli davanti a una platea esasperata, otterrai inevitabilmente un applauso.

Il problema è che i poliziotti non sono una banda di Hooligans, sono servitori che rappresentano lo Stato, e che come gruppo organizzato, o come pubblici ufficiali non hanno diritto di opinione (almeno in pubblico) sulle sentenze, anche su quelle che ritengono ingiuste: è così e non può essere altrimenti, se non altro perché quelle sentenze loro sono chiamati a farle applicare. C’è un gioco di reciproca legittimazione tra i violenti della piazza che tirano i bulloni e spaccano le vetrine, e i sindacalisti che pensano di poter trasformare un condannato in una bandiera: queste due minoranze hanno bisogno gli uni degli altri per prendere in assedio la maggioranza di chi vuole manifestare pacificamente e di chi vuole fare il poliziotto senza farsi tentare dalla giustizia di fatto e onorando la divisa che indossa come fanno la stragrande maggioranza dei poliziotti italiani, talvolta con spirito di sacrificio.

violenti che giocano alla guerriglia, sentono il bisogno di un alibi per dire: lo vedete? Siamo in un Paese in cui non c’è democrazia e non c’è certezza del diritto. Quindi siccome applaudono i condannati io sono libero di fare quello che voglio. I pochi poliziotti che credono di poter agire al di sopra della legge – invece – hanno una fonte di legittimazione in quell’applauso: siccome sono un perseguitato, siccome sono in una guerra, ho diritto a difendermi con ogni mezzo. Siccome dei miei colleghi sono stati condannati siamo tutti privi di tutela, siamo tutti uguali a prescindere da quello che abbiamo fatto.

Dice Gianni Tonello, segretario del Sap (con cui più che una intervista ho avuto un corpo a corpo), che i giornalisti italiani sono disinformati e faziosi: sostiene che «quel congresso era una cerimonia privata». Capisco la sua esigenza di difendere le apparenze, ma è davvero una arrampicata sugli specchi. Il Sap ha fatto una scelta politica, e adesso non dovrebbe nascondersi dietro un dito. Un poliziotto, come un magistrato, ha più doveri di un normale cittadino: ieri i sindacalisti del Sap ci hanno dato l’impressione di pensare di averne qualcuno di meno degli altri.

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