Ritorna Balzac! La nuova aristocrazia dei super manager

Ritorna Balzac! La nuova aristocrazia dei super manager

Occupy Wall Street ha finalmente il suo libro-manifesto, anche se Zuccotti Park è tornata ad essere una piazza come tante altre. Ne parlano tutti, nei circoli economici e nei convegni dei think tank liberal, come il clintoniano Center for American Progress. Le iperboli si sprecano: “Il saggio che potrebbe cambiare il modo di leggere la storia economica degli ultimi due secoli” (The Economist). “Un libro straordinariamente importante, impossibile da ignorare” (The Financial Times). “Un testo epico, scritto dal più importante pensatore della sua generazione” (The Observer). L’oggetto in questione ha un titolo altisonante, che evoca nientemeno che Karl Marx: “Capital in the Twenty-First Century”. L’autore si chiama Thomas Piketty ed è francese, o meglio parigino (“Ho lasciato raramente Parigi, se non per brevi soggiorni”, racconta, descrivendo la propria vita dopo la decisione, controcorrente, di mollare una cattedra al Massachussets Institute of Technology per fare rientro in Europa).

In America le freedom fries sono tornate ad essere le french fries ed è finita l’epoca in cui i transalpini “mangiarane” venivano disprezzati e derisi, dopo il no di Chirac e de Villepin alla guerra in Iraq. Accade così che un quantatrenne parigino, con alle spalle vent’anni di studi sulle disuguaglianze sociali, diventi il nome più in voga a Manhattan, a tal punto che il suo editore americano, la Belknap, un marchio dell’Harvard University Press, ha dovuto anticipare di un mese, da aprile a marzo, la pubblicazione del saggio, causa sovraccarico di richieste.

Molti critici ammettono che il libro merita un’attenta lettura, se non altro per il suo originale approccio. Per spiegare la realtà, sostiene l’autore, c’è bisogno di Balzac come di Excel, e una citazione di Papà Goriot vale più di molti grafici. Del resto, i maestri di Piketty, figlio di genitori sessantottini, oggi docente alla Paris School of Economics, non sono tanto i cattedratici della scienza triste, ma gli storici degli Annales, Marc Bloch e Lucien Febvre, che nella prima metà del Novecento rivoluzionarono gli studi storiografici, aprendoli a metodi e soggetti nuovi, come l’analisi dei costumi e delle mentalità. Piketty ha insegnato in quell’École des Hautes Études en Sciences Sociales che è, in sostanza, una creatura annalistica, e l’eco di quest’esperienza è evidente: “L’economia è una disciplina che fa parte delle scienze sociali, accanto alla storia, alla sociologia, all’antropologia e alla scienza politica”. Le leggi economiche, quindi, prendono forma attraverso norme sociali, valori, scelte precise della classe dirigente.

Il difetto degli economisti, a suo giudizio, è l’eccesso di astrazione, l’abuso di formule matematiche, da cui deriva l’incapacità di fare i conti con la realtà. Scienza non solo triste, ma arida. Gli scienziati sociali, invece, secondo Piketty, non devono essere neutri, ma “prendere posizione su specifiche questioni e su particolari policy, come il welfare, il sistema fiscale o il debito pubblico”. La sua ossessione è la disuguaglianza. A partire dal saggio del 2003, scritto assieme a un altro economista –  francese come lui, ma docente a Berkeley –  Emmanuel Saez, in cui aveva studiato le disparità di reddito negli Usa tra il 1913 e il 1998, l’autore ha progressivamente esteso la sua analisi ad altri Paesi, soprattutto occidentali (ma anche Cina, India e Giappone) fino a costituire un World Top Incomes Database che copre circa 30 Stati (tra cui l’Italia). Piketty e Saez hanno aggiornato i dati sugli Stati Uniti, scoprendo che nel 2012 l’un per cento di zuccottiana retorica deteneva il 22,5 per cento del reddito totale, la percentuale più alta dal 1928.

Il ragionamento dell’economista parigino ha alcuni punti cardine. Primo, la tendenza alla crescita delle disuguaglianze sociali non è un fatto ineluttabile, intrinseco al capitalismo (come scriveva Marx), né il prodotto della crescita, come sostengono alcuni apologeti del libero mercato – la torta si allarga, ma le fette sono sempre più diverse tra di loro – bensì il frutto di precise scelte di politica economica. L’esempio è dato dalla cosiddetta Golden Age, l’era di sviluppo che il mondo conobbe tra il 1945 e il 1973, ossia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla crisi petrolifera. Grazie ai forti investimenti pubblici per la ricostruzione, agli alti salari frutto delle lotte sindacali, ai prelievi fiscali sugli alti patrimoni e alla tassazione progressiva sui redditi, la forbice sociale diminuì.

Adesso, invece, quelle che lui chiama “le forze della divergenza” hanno ripreso il sopravvento. Alcuni esempi? Secondo un recente report di Oxfam, le 85 persone più benestanti del mondo detengono una ricchezza pari a quella della metà più povera, 3,5 miliardi di uomini e donne. Nel 2011 l’ad di Apple, Tim Cook, ha ricevuto dalla sua azienda 378 milioni di dollari, tra salari, stock option ed altri benefit (un operaio della Foxcoon, che assembla iPad e iPhone, impiegherebbe 60.000 anni per raggiungere quella cifra). Mentre la curva di Kuznets – altro economista che studiò a lungo le disuguaglianze – aveva la classica forma di una campana, Piketty disegna una sorta di inversione a U. La tesi è forte: se la tendenza alla distribuzione diseguale della ricchezza dovesse proseguire, si tornerebbe alla “società patrimoniale” raccontata da Jane Austen e Honoré de Balzac. I top manager delle grandi corporation come l’aristocrazia parassitaria dell’Ottocento? Sì, risponde Piketty, che arriva a sostenere come “il livello di disuguaglianza oggi negli Stati Uniti sia probabilmente il più alto mai raggiunto da una società umana”, con conseguenze sulla qualità della democrazia (“è difficile parlare di istituzioni democratiche, nel momento in cui il 95% della ricchezza appartiene al 10% della popolazione”).

E qui arriviamo al secondo punto. Gli economisti, dice, devono prestare molta attenzione all’accumulazione del capitale, il cui ruolo rappresenta la chiave per comprendere le crescenti disparità sociali. Piketty arriva a formulare una sorta di legge interna al moderno capitalismo: le disuguaglianze aumentano quando il rendimento del capitale è superiore al tasso di crescita dell’economia. Viceversa, quando il Pil aumenta più rapidamente rispetto alla remunerazione della ricchezza posseduta, le disparità si attenuano. Della ripresa seguita alla Grande Crisi hanno beneficiato in pochi, perché i salari sono cresciuti meno della rendita (secondo i calcoli di Saez e Piketty il 95 per cento dell’aumento di reddito tra 2010 e 2012 è andato tutto a favore di una piccola fetta di persone, calcolabile attorno all’un per cento). Gli stipendi dei manager sono spropositati e ingiustificati, anche perché è difficile calcolare quale sia il loro effettivo contributo ai profitti delle corporation (la loro produttività marginale).

L’autore sembra riecheggiare la critica al capitalismo delle stock option che ebbe tanta fortuna una decina di anni fa, dopo il caso Enron (ad esempio, in un popolare documentario chiamato significativamente “The Corporation”). Allo stesso modo, prende le distanze da quegli economisti dello sviluppo secondo cui le disuguaglianze sono inevitabili in una fase di profonda industrializzazione, ma finiscono naturalmente per attenuarsi. È la politica a decidere i destini, sembra sostenere Piketty, che non nasconde la propria ammirazione per Roosevelt nonché la profonda distanza dalle policy di Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

Anche i critici gli concedono il merito di avere rivalutato il ruolo dell’economia politica e della politica economica, nonché di avere costruito un lavoro monumentale, infarcito di dati e frutto di quindici anni di ricerche empiriche, grazie a una squadra di oltre trenta economisti. Le sue previsioni catastrofiche, però, ancorché imbellettate con citazioni balzachiane, sono sembrate eccessive. Alcuni gli hanno rimproverato di essersi focalizzato sull’Occidente, dimenticando che negli ultimi trent’anni la globalizzazione ha consentito a centinaia di milioni di persone di uscire dall’indigenza. Secondo la Banca Mondiale, nel 1981 due uomini su cinque vivevano con meno di un dollaro al giorno, adesso la percentuale è scesa ad uno su sette Nel secondo Dopoguerra l’aspettativa di vita nei developing countries era di 42 anni, oggi è salita a 68 (anche se questi dati non risolvono la questione dell’ineguaglianza di reddito).

Quando dall’analisi si passa poi alla proposta politica, i programmi paiono difficilmente attuabili. Piketty parla dell’introduzione negli Stati Uniti di un’aliquota dell’ottanta per cento sui redditi superiori al milione di dollari (simile a quella lanciata, con grande insuccesso, dal presidente francese Hollande), che, a suo avviso, non solo non intaccherebbe la crescita, ma distribuirebbe più equamente i suoi frutti. Ora, se è vero che molti milionari americani, come Warren Buffet, si sono schierati a favore di alcune imposte, come quella di successione, per rendere meno diseguali le condizioni di partenza, le varie proposte dell’economista francese in materia di tassazione della ricchezza – tra cui un’imposizione a livello mondiale, progressiva, sul capitale – ridurrebbero gli incentivi ad investire, sostengono i critici. Piketty discute anche l’idea di una tassa europea sulla ricchezza, ma, al di là dei rischi di fuga dei capitali verso i paradisi fiscali, si è già visto quante e quali difficoltà ci siano nello stabilire regole comuni, anche a livello comunitario.

Mentre l’entusiasmo degli economisti liberal, come Paul Krugman e Joseph Stiglitz, era piuttosto ovvio, meno scontato era l’interesse della stampa conservatrice verso un libro che evoca un ritorno alle ineguaglianze della Belle Époque  (in Europa il rapporto tra ricchezza e reddito è vicino a sei, in Italia è prossimo a sette, scrive). Anche chi non condivide il parallelo tra i top manager delle multinazionali e l’aristocrazia francese del Settecento, e non vede in giro orde di giovani Rastignac, non può non sentire l’urgenza di affrontare il problema delle disuguaglianze sociali. In Italia il dibattitto sulla patrimoniale va avanti da anni e misure come il tetto degli stipendi per i dirigenti pubblici – la “regola Olivetti” evocata da Matteo Renzi  – sono sempre più sentite dall’opinione pubblica. Non sarebbe una sorpresa se nei prossimi mesi il sito di Amazon registrasse un’impennata di vendite della Comédie Humaine di Monsieur Honoré de Balzac.  

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