Se muore la sitcom, muore la televisione

Se muore la sitcom, muore la televisione

C’è un momento in cui un genere diventa cult. Di solito succede quando a nessuno importa più niente della sua esistenza. È successo per il country, per gli anni ’90, per le audiocassette. Poi ci sono generi che invece che diventare oggetti da museo evolvono continuamente, si riciclano, crescono. Qualcuno lo ha detto del bluegrass, dopo che tutti si erano stupiti del ritorno in auge di gruppi come gli Old Crow Medicine Show : «Non era morto, solo che avevate smesso di ascoltarlo». Ecco, questo è più o meno quello che sta succedendo — o che, stagione dopo stagione — sembra dover succedere alla sitcom. Rimane lì, a mettere la televisione davanti a tutto, prima di tutto, che il pubblico lo voglia recepire o meno. Se il pubblico affina i gusti, li cambia, li stravolge, il genere sitcom cambia e stravolge assieme al pubblico.

Può capitare di confondersi: mentre iniziavo a raccogliere il materiale per questo articolo, un amico ha sgranato gli occhi e mi ha detto: «Sitcom? Pensavo non ne facessero più» allora gli ho chiesto se avesse mai guardato Family Guy , «certo, ma quello è un cartone animato». Sbagliato. Non nei termini ma nella tassonomia.

Il cast di Seinfeld (ABC)

La sitcom è un genere complesso — malgrado la sua apparente semplicità — e primordiale, televisivamente parlando. Così vario da incunearsi facilmente tra un genere e l’altro, spalla a spalla nel palinsesto con calibri decisamente più imponenti, che può non funzionare per niente o sollevare le schiere dalle poltrone e dai divani. È un prodotto da flop o tutto esaurito, fermo e dignitoso nella sua autocoscienza. È un gioco dichiarato, non per niente ogni anno vengono mandati in onda all’apertura di stagione il triplo dei pilot rispetto agli altri generi e non è raro – anzi piuttosto usuale – che una serie chiuda prima di vedere l’alba della mid-season. Niente di drammatico, è la storia di un genere che ha vissuto diverse epoche d’oro che adesso porta addosso come cicatrici, a un livello di lungocorsismo tale da potersi permettere di navigare in acque placide anche quando tutto intorno si impazzisce per restare a galla. Vive di una tranquillità relativa, che ha guadagnato con l’esistenza ininterrotta da quando esiste il piccolo schermo, o perlomeno dal momento della sua prima diffusione. I Love Lucy è andata in onda per la prima volta nel 1954, in quel dopoguerra in cui gli americani hanno scoperto la televisione, e si è da subito affermata come capostipite di un genere popolare, che riflettesse la visione di chi, per la prima volta, stava davanti allo schermo. Da allora ci sono stati periodi di alti e bassi, continue corse dietro a un pubblico continuamente in cerca di nuovi riferimenti.

Da allora, più di una volta è cambiato tutto. Le risate registrate sono diventate importanti per i tempi comici, poi hanno cominciato a sparire, il sistema a tre camere è stato sostituito da una camera a spalla e del montaggio “cinematografico”. Sono comparse le sitcom animate, che sono cresciute, si sono gonfiate, sono diventate un successo planetario e poi hanno cominciato a declinare. Sono comparsi i salotti e i salotti sono spariti, si è parlato di famiglie, più che altro, poi di amici. Ci sono stati almeno due scossoni significativi per l’evoluzione del genere: il primo a fine anni ’80, quando, dopo una decina d’anni di spaccati familiari più o meno allargati, Larry David e Jerry Seinfeld hanno inventato quella che sarebbe diventata la fonte di ispirazione per tutti – proprio tutti – i tempi a venire. Il secondo quando qualche produttore ha scoperto Zach Braff e ha cominciato a preferire gli esterni ai teatri di posa.

Saul Austerlitz ha scritto un libro — Sitcom, a History in 24 episodes, from I Love Lucy to Community, ancora inedito in Italia — che è a metà tra la guida da campo e la bibbia per affezionati, il libro che chiunque nutra un sano culto della risata registrata avrebbe voluto scrivere. «La sitcom non sta morendo per niente — mi ha detto qualche giorno fa — sta cambiando molto rapidamente, e il modello più tradizionale (con la laugh track e tutto il resto) sta cominciando a sparire. Sta crescendo, diventando adulta, non morendo. E la maggior parte della sua crescita è data dall’adattamento, dalla mutazione in nuove forme che non sono immediatamente riconoscibili come sitcom. Per me le migliori serie del momento (penso a Louie , Broad City , Girls, Community ) giocano sull’intenzione di confondere il pubblico. Di non fargli immediatamente capire di cosa si tratti».

La sitcom, tradizionalmente, parla di se stessa e della televisione. A un certo punto della quarta stagione di Seinfeld, l’intero cast è coinvolto nell’ideazione, realizzazione e messa in onda di una serie intitolata Jerry, ideata da Jerry e George e in tutto e per tutto identica a Seinfeld, cioè a quello che in quel momento il pubblico sta guardando in televisione. In una pretesa meta-televisiva talmente ardita da risultare sublime, la scienza dello show about nothing portata in primo piano, ma che in fin dei conti è sempre esistita. Si va da Lucy che vuole diventare una star del piccolo schermo, a Joey Tribbiani nella sua eminente interpretazione di Drake Ramoray, dalla cocciutaggine ottusa di Sweet Dee Raynolds nel voler inseguire una comicità inesistente, al tripudio di Curb your Enthusiasm , in cui Larry David realizza il sogno di riportare in vita, appunto, Seinfeld. La sitcom parla di sé e della tv, e se dovesse morire porterebbe con sé un pezzo di storia che difficilmente potrebbe riemergere, se non altro perché — anche se le stime degli ultimi anni risultano tutt’altro che confortanti — senza un apparato ben oliato e la giusta dose di esperienza sul campo, difficilmente si arriveranno a sfiorare così da vicino i picchi di ascolti da Super Bowl a cui gli affezionati si sono abituati.

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La sitcom, sostiene Austerlitz e io gli vado dietro, è un genere popolare, perché riflette i gusti immediati e li riporta dall’altra parte del vetro ritoccati abbastanza da alzare l’asticella verso una visione migliore del mondo, ma senza allontanarla troppo da quanto lo spettatore possa saltare. L’illusione di arrivarci è la prima cosa da tenere a mente, facendo televisione. Quella, o il completo straniamento. Per una ventina d’anni un numero importante di serie è cominciata con l’infrangersi di una storia d’amore importante importante — Cheers , Friends, New Girl — e non c’è sitcom che, in un modo o nell’altro, non punti il dito con o contro la morale del momento — It’s Always Sunny in Philadelphia, Modern Family — non esplori i bassifondi della psicologia esistenziale — Louie, Curb your Enthusiasm — e in generale non produca una visione condivisibile della vita. Con o senza un’attinenza alla realtà — 3 rd Rock from the Sun — o al periodo storico — Happy Days, That’s 70s Show — che in fin dei conti, però, non è così importante per restituire la familiarità di cui tutti abbiamo bisogno almeno una volta a settimana.

«Direi che c’è più di un’epoca d’oro. Non credo che gli anni ’60 abbiano prodotto molto, il genere ha cominciato a crescere significativamente nei primi ’70. Ha cominciato a capire il proprio pubblico e a saperlo accontentare. Gli anni ’90 sono stati un grosso punto di svolta, ma direi che anche oggi stiamo vivendo un’epoca d’oro. C’è molta più buona televisione di quanta ce ne sia mai stata e i programmi di qualità trascinano la sitcom. Dovremmo approfittarne e tenere duro» ha continuato Saul, dopo che io gli avevo esposto tutto il mio amore incondizionato per Seinfeld. «Programmi come Seinfeld hanno cambiato radicalmente la storia, hanno rappresentato un punto di rottura. Ma pensa anche ai Simpson, a Friends. Hanno cominciato a giocare con la consapevolezza di essere in televisione. Pensa a Homer Simpson: un maniaco televisivo fatto e finito, che in più di un caso cambia la televisione secondo i suoi gusti. Hanno cominciato a parlare di televisione in televisione senza dare l’idea di farlo, oltre che gradualmente perdere l’idea di eroe positivo che fino ad allora aveva popolato gli show — Cosby , per esempio — dando in pasto al pubblico un modello nuovo, gradevolmente deprecabile». Se il principio è questo, il fatto di essere arrivati a quel capolavoro che è Louie sembra quasi naturale.

Sarà anche una nuova epoca d’oro — di questo sono convinto — ma le acque sono più torbide che mai. È diventato difficile distinguere i generi tra loro, non per niente da qualche anno ci si riferisce a una buona fetta di produzioni con il termine comedy, che tiene un piede nella sitcom e l’altro nel dramedy. «Odio la parola dramedy — dice Saul — ma credo che un aspetto dell’evoluzione della sitcom stia nella volontà di avventurarsi oltre i confini della comicità. Le vecchie serie sono rassicuranti, ma raramente drammatiche, cercano a tutti costi di mantenere il tono più leggero possibile. Ci sono serie degli anni ’70, come il Mary Tyler Moore Show e soprattutto M*A*S*H* , che hanno cominciato ad aprire la via a temi più seri, quasi gravi. Hanno aperto le dighe del drama. Un programma può essere essenzialmente comico, o mantenere una sensibilità comica pur inserendo momenti di genuina drammaticità. Credo che tutto quello che è venuto dopo M*A*S*H* debba molto alla serie della CBS. Da una parte ci sono prodotti come Cheers e Friends, che si caricano emotivamente con espedienti tipo “cosa succederà adesso?”, intrecci e relazioni romantiche per tenere il pubblico attaccato alla serie. E dall’altra parte ci sono cose come Girls e Louie, che saltano da una parte all’altra della barricata senza soluzione di continuità. Confondono lo spettatore e lo tengono emotivamente legato ai personaggi, a volte nello spazio di un episodio, a volte di una scena».

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La sitcom deve vivere, o con lei morirà la televisione. Intesa come specchio della quotidianità, sia essa pulita e comprensibile o becera e difficile da accettare. Ogni tanto mi capita di preoccuparmi seriamente, quando leggo le statistiche di ascolto, ma quando vedo Louis C.K., Abbi Jacobson e Ilana Glazer o sento del rinnovo di It’s Always Sunny, mi si scalda il cuore come davanti a un pericolo scampato.

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