Nella sala, al buio, già prima che l’anteprima sia iniziata, il tipo di fianco a me ha cominciato a sghignazzare. L’avevo visto entrando, portava i baffi. Magro come un chiodo, maglione a rombi, occhiali vintage e postura composta ma innaturale – con le ginocchia strette e le punte dei piedi tese. Prima che le luci si spegnessero ha tirato fuori una Moleskine e una penna stilografica. Poi le luci si sono spente e ha cominciato a sghignazzare. Ha sghignazzato per tutti i titoli di testa, ha sghignazzato alla comparsa di Jude Law, poi a quella di F. Murray Abraham, poi a quella di Ralph Fiennes e giù fino a Bill Murray passando per Jeff Goldblum – ma a quel punto ho sghignazzato anch’io –, Jason Schwartzman, Willem Dafoe, Tilda Swinton, Owen Wilson e Harvey Keitel. Sghignazzava come un ragazzino di fronte al regalo di Natale che aspetta da un anno, con picchi di gridolini isterici, e prendeva appunti, che poi io ho immaginato come qualcosa di informe e misterioso visto che non si vedeva nulla. Lo sentivo scriversi l’articolo in testa: entusiastico, clamoroso, colorato. Ha reso la mia anteprima di The Grand Budapest Hotel un piccolo incubo.
Questo è quello che Wes Anderson fa ai suoi fan, li impregna. Intendiamoci, adoro Anderson, anche quando – come in questo caso – c’è poco oltre la fotografia e la carrellata di attoroni, però non posso sopportare l’annullamento del gusto critico nel non ammettere il popolare assioma che «il troppo storpia». A me il film è piaciuto. Così nudo di trama, costruito intorno a un’idea più che a un concetto, senza mai lasciar partire veramente la recitazione del cast immenso che si è scelto. Però bisogna dirlo: è l’amplificazione di se stesso.
Adoro le barrette Mars, idealmente ne mangerei in continuazione, ma se mi mettessero di fronte a una cena di soli Mars, conditi in varie salse, proposti in varie ricette, ne uscirei piuttosto nauseato. Non si tratta di una questione di gusto – Anderson ne ha una valanga e noi entusiasti ne sopportiamo ben più di quanto lui ne somministri – ma di fisiologica limitazione di quanto il corpo possa trattenere prima di rigettare tutto. The Grand Budapest Hotel è una cena di soli Mars, che rifarei, ma questo non vuol dire né che sia salutare, né che il mio fisico non ne risentirebbe quasi immediatamente.
È probabile che io sia stato influenzato negativamente dalla foga divoratrice della persona di fianco a me, chiaramente – essendo addobbato come Richie Tenenbaum – in grado di ingurgitare molto più Anderson di me prima di farsi prendere dai crampi allo stomaco, ma c’è stato un momento durante il film in cui sono riuscito a fare un passo indietro rispetto all’estetica e mi sono reso conto che non stavo guardando quasi niente. O meglio, stavo guardano un regista favoloso, denso di una poesia straordinaria, benedetto da uno spiccato senso estetico, accatastare strati su strati della sua stessa materia, trasformarli in pellicola e somministrarli al pubblico. Quando è uscito Moonrise Kingdom io l’ho difeso strenuamente dalle accuse di leggerezza sostenendo che le battute non dette fossero più importanti di quelle in copione. E ne sono ancora convinto, che è tanto dire per un film con un buon 80% di silenzi. Con The Grand Budapest non saprei dove andare a cercare la sottotrama, dove sbattere la testa per dare profondità di concetto a un film che è soltanto visivo. Lì, pronto, finito.
Ci sono i cambi di colore, un colore sempre intenso e marcato, che non dà spazio ad alcun tipo di interpretazione perché quello che è rosso è rosso e quando c’è da stare sulle spine saltano fuori i toni scuri di un castello abbarbicato da qualche parte nell’ex Unione Sovietica. Ci sono i baffi. Baffi dappertutto, arricciati, stirati, disegnati con la penna, all’insù, all’ingiù lungo le guance. Ci sono riprese che sembrano dipinti, dipinti che sembrano riprese e un dipinto che è il centro dell’esile racconto ma che compare e sparisce, salvo poi indugiare sullo schermo il tempo necessario a risolvere tutto. La trama, il film, i dubbi esistenziali di Abraham, tutto. C’è un libro inventato, che apre la pellicola, e la musica è esattamente quello che ci si aspetterebbe di sentire. Ci sono funicolari e treni, c’è la specularità sia delle inquadrature – che col tempo ho imparato a riconoscere come un marchio autoriale non da niente – che delle scene. C’è tutto quello che dovrebbe esserci, compresa una voglia a forma di Messico in faccia a una ragazza molto carina. Non c’è più l’elemento di stupore, e forse è questa la cosa che mi è mancata più di tutte.
La prima volta che ho visto un film di Wes Anderson, confesso che non sapevo a cosa stessi andando incontro. Poi per molto tempo ho avuto qualche difficoltà a dargli un’etichetta, a inserirlo in uno dei comparti che utilizzo per nutrire la mia fantasia in declino. Era Rushmore e l’ho guardato perché mi piacevano Jason Schwartzman e Bill Murray e mi piaceva l’idea che potessero coesistere. Poi con I Tenenbaum ho capito: non si può definire un film di Anderson se non come “film di Wes Anderson” e non sempre questo è un vantaggio. Facendo così si finisce per giocare sempre con le stesse carte e rasentare una misura sempre sul punto di essere colma, senza termini di paragone abbastanza validi da fare da valvole di sfogo.
Jason Schwartzman e Jude Law in The Grand Budapest Hotel
La carriera di Anderson è una delle poche chiaramente segnate da un’evoluzione inconfutabile. Il che non significa necessariamente che i suoi primi film siano peggiori degli ultimi. È un accumulo sontuoso di particolari, un costruire l’immaginario dello spettatore attraverso tante piccole tessere di un mosaico scintillante che non sembra avere nessuna intenzione di limitarsi. Le avventure acquatiche di Steve Zissou, ad esempio, è un continuo sbalordimento che però qualitativamente non arriva alla profondità de I Tenenbaum, e così Il treno per Darjeeling è un parlato discreto, un racconto sospirato, che però manca della voglia di osare di Steve Zissou. I riferimenti arrivano dalle pellicole precedenti e vanno a perdersi nelle successive, a volte adattandosi perfettamente alla situazione, a volte stridendo apertamente. È un po’ quello che fa Tarantino con le sue continue citazioni, solo che Anderson pesca sempre dalla stessa parte e spesso non si fa alcun problema a citare sé stesso. Operazione tanto nobile quanto rischiosa e che con The Grand Budapest Hotel lo ha portato sull’orlo della ripetitività. Devo ancora decidere quanto si sta sporgendo.
Ecco, mettiamola così: diventare l’icona hipster dell’industria cinematografica non è qualcosa a cui qualcuno può aspirare, ma quando ti succede vieni messo davanti a una scelta. Cavalcare l’onda o lasciare perdere. Wes Anderson ha un grosso vantaggio su chi avrebbe lasciato perdere, ama un certo tipo di immaginario a tal punto da essere in grado di creare nuovi stereotipi, qualcosa a cui i baffuti sghignazzatori da anteprima possono aggrapparsi con la gioia di un bambino a Disneyland. Forse prima o poi aggiusterà il tiro, per ora godiamocelo.