TaccolaAgroalimentare, così piccoli non andiamo lontano

Agroalimentare, così piccoli non andiamo lontano

Come arriva l’agroalimentare italiano all’edizione 2014 di Cibus, il Salone internazionale dell’alimentazione iniziato oggi, 5 aprile, a Parma? Con molti problemi e qualche buona notizia. I problemi sono noti e riassumibili in quattro concetti chiave: frammentazione eccessiva della produzione, e in parte della distribuzione; scarsa capacità di esportare rispetto ai competitor europei; costi di produzione e trasporto troppo grandi; una finanza che ha trascurato le esigenze degli agricoltori. Le buone notizie riguardano soprattutto la svolta sull’export, che ha compensato il calo netto dei consumi interni. Anche se ad approfittarne sono stati in pochi.

Un settore che ha tenuto

Come ha spiegato una recente analisi di Nomisma per l’Adm, associazione distribuzione moderna,

la filiera agroalimentare italiana ha un ruolo rilevante nell’economia del Paese, rappresentando il 13,2 per cento degli occupati (3,3 milioni di lavoratori) e l’8,7 per cento del Pil, percentuale che sale al 13,9 per cento considerando anche l’indotto economico in altri settori produttivi. La sua centralità è percepibile anche in virtù dei 76 miliardi di euro di retribuzioni annualmente sostenute, dei 23 miliardi di euro di investimenti e di un contributo erariale superiore ai 20 miliardi di euro, al netto dei contributi ricevuti dalle imprese (in gran parte – 70 per cento – indirizzato verso la fase agricola).

Nonostante la perdurante crisi economica, ci sono stati dei segnali incoraggianti. L’industria alimentare, nell’ultimo quinquennio, ha rappresentato uno dei pochi comparti del manifatturiero a mettere a segno una crescita nel valore aggiunto (+6,5% tra il 2007 e il 2013 contro un -15% del totale industria manifatturiera). Se si considera tutta la filiera agroalimentare, il suo peso è passato dall’8,4 per cento all’8,7 per cento in termini di Pil e dal 12,6 per cento al 13,2 per cento in termini di occupati.

Il contributo principale è arrivato dalla migliorata capacità di vendere all’estero: come nota ancora Nomisma, in uno studio che sarà presentato martedì 6 maggio alla fiera Cibus di Parma

nel 2013 le esportazioni di prodotti alimentari italiani hanno toccato il massimo storico, arrivando a 27,5 miliardi di euro, un valore quasi raddoppiato nell’ultimo decennio. Si tratta di un risultato strategico, soprattutto alla luce della stagnazione dei consumi alimentari sul mercato nazionale che – a causa di una recessione senza precedenti – perdura ormai da diversi anni e che ha visto diminuire la spesa alimentare (a valori costanti) di quasi il 10% dal 2007.

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Se c’è da esserne contenti, non si può dimenticare che il potenziale è tutt’altro che sfruttato: solo il 12% delle aziende alimentari italiane (escluse quelle delle bevande) esporta: tradotto in valori assoluti, significa che meno di 6.500 imprese è in grado di vendere fuori confine. L’alimentare italiano, per rendere l’idea, esporta la metà di quello tedesco (57 miliardi di euro) e la sua propensione all’export (21%) è decisamente inferiore a quella di tutti i principali competitor europei (27% per la Francia e 34% per la Germania). Il motivo principale di questa arretratezza risiede nelle piccole dimensioni (il 98,5% dell’industria alimentare è composto da imprese con meno di 50 addetti), nella ridotta capacità organizzativa e in conoscenze manageriali spesso non adeguate agli sviluppi dello scenario globale.

Nomisma e la Fondazione Cuoa, hanno in questo contesto deciso di avviare un corso executive per il management delle imprese alimentari, che sarà presentato il 6 maggio al Cibus di Parma.

Abbiamo sentito uno dei suoi coordinatori, Denis Pantini, direttore dell’Area Agroalimentare di Nomisma, sullo stato di salute dell’agroalimentare in Italia.

Dal vostro osservatorio di Nomisma, che come possiamo definire la situazione economica dell’agroalimentare italiano?
Nella situazione di recessione generale, l’agroalimentare, anche per la sua funzione anticiclica, ha tenuto più di tutti gli altri. Possiamo dire che è un asset che produce ancora ricchezza per l’economia italiana. Ma le nubi non mancano. Se guardiamo i consumi, nel 2013 per la prima volta i consumi alimentari calano; se poi guardiamo i valori costanti (al netto dell’inflazione, ndr), il calo è stato del 10% in 5 anni. Stiamo sempre più guardando all’estero, ma c’è un problema: i campioni che esportano sono pochi, si parla di 6.500 aziende in tutta Italia. Sono soprattutto le realtà medio-grandi, quelle con più di 50 addetti, che sono l’1,5% di tutto il tessuto produttivo.

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È solo per questo che esportiamo la metà di quanto faccia la Germania?
Il gap nasce dal fatto che la l’Italia ha una superficie agricola che è la metà di quella tedesca e dalle condizioni diverse delle aziende. La Germania gioca su produzioni in cui il prezzo medio di esportazione dei prodotti è più basso perché gode di una competitività di costo molto più elevata. Può quindi servire un mercato molto più ampio rispetto al nostro. Noi invece ci posizioniamo su nicchie all’interno del mercato globale. Ciò non toglie che la propensione all’estero dell’Italia è bassa: il fatturato ottenuto dalle vendite all’estero sulle vendite totali è solo del 20 per cento.

Il nostro export è però raddoppiato. Come è avvenuta questa crescita?
Il fatto che sia diventato un’esigenza oltre che un’opportunità ha spinto le aziende a essere più proattive nella ricerca di spazi e mercati all’estero. Poi le produzioni hanno avuto tassi di crescita molto diversi: sono cresciuti di più i prodotti lattiero-caseari e quelli del vino. Il caso del vino è emblematico: è il nostro principale prodotto esportato, oggi ha una propensione all’estero del 50% e qui c’è stato un forte apprezzamento dei nostri prodotti all’estero perché anche i consumi di vino sono una tendenza in crescita un po’ in tutto il mondo. L’Italia, pur soffrendo di piccole dimensioni, è riuscita, grazie anche a una forte ampiezza di gamma e di prodotto a inserirsi in tante nicchie che alla fine hanno fatto volume.

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L’industria di trasformazione è invece rimasta su livelli di sviluppo limitati?
Sì, la questione è di limitazione di sviluppo legata soprattutto alle dimensioni. Le aziende che esportano sono poche. Anche se hanno aumentato negli anni la propria quota di mercato sull’estero, più di tanto è fisiologico che non riescano ad andare. Noi potremo aumentare la quota sui mercati esteri quanto più saremo in grado di portare anche altre imprese ad esportare. O si attiva una serie di strumenti come le reti, i consorzi, le aggregazioni, che possono portare di più le aziende sui mercati esteri, oppure è il caso che ci impegniamo in un processo di ristrutturazione del settore, che già in parte è avvenuto: nel settore industriale ci sono già state negli ultimi anni fuoriuscite di imprese e crescite dimensionali. Non è un settore che è rimasto immune dalla crisi. Ma ha saputo riorganizzarsi e quella parte che si è riorganizzata oggi è più competitiva.

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La parte della distribuzione è stata una delle più discusse di recente. C’è stato un ruolo positivo svolto da catene come Eataly, tuttavia parliamo di volumi limitati e i più grandi esportatori del made in Italy rimangono le grandi piattaforme distributive straniere, a partire da Auchan e Carrefour.
Sì, quello è un nostro limite. Mentre tedeschi, inglesi e francesi possono godere anche di queste piattaforme, da noi le grandi catene distributive sono tutte cooperative, come Coop e Conad, che essendo cooperative di consumatori non hanno interesse ad espandersi all’estero. Ha fatto eccezione l’alleanza stretta da Conad con LeClerc, con un aumento della rete distributiva in giro per l’Europa. Il fattore Eataly è sicuramente importante, che ha saputo sfruttare la voglia di Made in Italy nel mondo, soprattutto su prodotti di livello qualitativo e prezzo più alto. Però non ha quei volumi che caratterizzano i grandi retailer internazionali citati in precedenza.

A proposito di Eataly: il suo fondatore, Oscar Farinetti, diceva che l’Italia può far crescere moltissimo la propria produzione agroalimentare. È una possibilità realistica?
Sarei cauto, abbiamo una bilancia alimentare negativa: se mettiamo assieme importazioni agricole ed alimentari e le confrontiamo con le esportazioni agricole e alimentari, abbiamo un deficit di sei miliardi di euro. Francamente faccio fatica a pensare a un aumento della produzione, a meno che ovviamente non aumentiamo anche l’importazione. Mi spiego: non dimentichiamo che buona parte del nostro made in Italy è fatta di caffè e di cioccolata. Sono le produzioni che hanno aumentato di più la quota sull’export, e sono prodotti trasformati in Italia ma la cui origine della materia prima non può che essere estera. Se noi aumentiamo ulteriormente le importazioni, nulla vieta che possiamo di aumentare di 20 volte anche la produzione nazionale.

Ha parlato di una selezione forte durante la crisi. Se pensiamo alle attività agricole, soprattutto nelle serre, c’è stata una contrazione dovuta non tanto a capacità commerciali o produttive ma alla condizione di difficoltà ad avere credito, soprattutto per i piccoli produttori. Cosa state notando sul fronte del credito?
La questione del credito nell’agricoltura è particolare. Il problema è che la difficoltà dell’accesso al credito in agricoltura è legata ai naturali cicli biologici: io oggi semino una coltura che raccolgo tra sette mesi. Dopo averla raccolta la vendo e passano altri tre mesi, per cui ho dei cicli mediamente lunghi prima di poter ritornare nell’investimento. Sappiamo benissimo che invece il credito richiede un ritorno di cash molto più breve, perché le rate vanno pagate in tempi più stretti. Le banche, in una fase anche di credit crunch, fanno più fatica a finanziare aziende che magari dal punto di vista della bontà dell’investimento rientrano, però rientrano con tempi più lunghi. Nel momento in cui c’è bisogno di avere rientri di capitale a breve, le aziende agricole sono le prime a soffrire. E qui si spiega perché in agricoltura la ristrettezza del credito ha colpito anche in un momento in cui il settore questa crisi non la percepiva.

Questo costringerà a ripensare la struttura del credito.
Sì, però sa cosa è successo? Un tempo, quando c’era la specializzazione del credito per l’agricoltura, le banche che facevano credito agrario e questo problema era meno rilevante. Poi con la liberalizzazione ogni impresa ha avuto un proprio modello di erogazione del credito, che era despecializzato, e quindi trattava le aziende agricole al pari di un’azienda metalmeccanica, dove i cicli di rientro sono differenti, e questo le penalizza. 
Però le posso dire che il mercato si sta muovendo in diversa maniera. Perché grandi gruppi nazionali e internazionali che avevano perso un po’ il contatto con il settore e con il territorio, stanno ritornando verso questo modello. Noi stiamo seguendo alcuni casi di banche che ci hanno chiesto un affiancamento per capire meglio come si muove questo settore, in modo tale da ritagliare o ridefinire meglio i loro strumenti a supporto del settore. Speriamo che sia una novità positiva che possa ridare fiato alle imprese. Perché ripeto: oggi come oggi le opportunità di crescita per questo settore ci sono.

Come giudicate gli strumenti del lavoro legati all’agricoltura? La cronaca ha mostrato moltissime storie di lavoro in nero, di persone extracomunitarie pagate con salari da fame. Come si può superare il problema?
In realtà non abbiamo mai fatto un approfondimento su questo settore. Certo, il problema sta nel fatto che c’è forse un’eccessiva rigidità, anche alla luce di quelle che sono le esigenze delle imprese. Tornando alla questione agricola, un effetto positivo che venne introdotto fu quello dei voucher, qualche anno fa. Andò incontro alle esigenze di un settore che ha esigenze di manodopera con picchi stagionali. Rispondere alle esigenze specifiche di questo settore con strumenti più flessibili, ha giovato molto e ha permesso un’emersione del lavoro nero, che purtroppo continua a esserci, anche per questioni di rigidità del mercato del lavoro.

Se si guarda solo il 2013, è stato un anno di salita o discesa?
Il valore aggiunto è cresciuto anche nel 2013, non è stato di grandi valori ma è cresciuto. Anche per il fatturato c’è stato un leggero aumento, trainato dall’export, che ha più che compensato il calo avvenuto sul mercato interno, per l’industria alimentare.

Pensa che l’Expo 2015 finirà per favorire un cambio di produzione o una maggiore valorizzazione dell’agroalimentare in Italia?
Io lo vedo soprattutto come una grande vetrina e come una grande opportunità per far conoscere maggiormente le nostre produzioni, soprattutto ai consumatori esteri. Potrebbe portare anche a un ulteriore incremento di valore, ma più che nel 2015 l’effetto sarà forse sull’anno successivo, o sugli anni seguenti. Non lo vedo come un effetto di breve periodo, dobbiamo aumentare l’apprezzamento dei nostri prodotti da parte dei consumatori nel lungo periodo.

Tra i temi più discussi prima dell’Expo 2015 c’è stato quello degli Ogm. Dal punto di vista economico è possibile una competizione con altre economie rimanendo fuori dagli Ogm?
Le do un’opinione strettamente personale: noi arriveremmo troppo tardi sulla questione Ogm. Gli altri Paesi che li hanno già adottati in termini di competitività sono quasi irraggiungibili. Ma la cosa che mi preme di sottolineare è che noi non siamo immuni in ogni caso dagli Ogm. Siccome non produciamo soia, che è il principale integratore proteico di tutti gli allevamenti e le produzioni zootecniche, ne importiamo il 90%, ed è tutta Ogm. Quindi è un falso problema quello di dire: “siamo immuni dagli Ogm”. Lo siamo, magari, dal punto di vista di marketing. 

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