Se c’è una cosa da dire di Swansea, e del Galles in generale, è che non ispira niente di poetico. Non di classicamente poetico, per lo meno. Nei blocchi di cemento a picco sul mare, il porto commerciale, i pub scintillanti delle insegne dei videopoker, non c’è niente di evocativo, niente che si direbbe poter scaturire il flusso di amore incontaminato, di potenza ispirata, di grandezza letteraria che ha caratterizzato la produzione di Dylan Thomas. A guardare il Galles a me non viene in mente niente, ma io non ho i suoi occhi.
La poesia di Thomas era solitudine, letteralmente. Era un capanno verde, mimeticamente immerso in un ambiente che ha il suo stesso colore, dove si ritirava a scrivere e dal quale emergeva con lo sguardo allucinato e vago per dare voce alle proprie composizioni. Come il Galles, Thomas si nutriva di un mondo piccolo, limitato, incuneato in qualcosa di più grande ma tanto evidentemente differente. Un mondo che già nei primi anni del secolo aveva qualcosa di arretrato. Mentre il poeta nasceva, intorno a lui l’Impero si mangiava fette di mondo e si preparava a una guerra mondiale, ma dalle parti di Swansea tutto rimaneva uguale e immobile, simile al momento futuro in cui Thomas sarebbe comparso alla ribalta. Ventenne, con diciotto poesie sotto il braccio. La voce del ragazzo pescava nel fondo del bosco, in qualcosa di vicino alla mitologia britannica ma già macchiato della ruggine del progresso. Era incantata, pur parlando di quanto di più disincantato esistesse al mondo. And Death Shall Have no Dominion / Dead men naked they shall be one / With the man in the wind and the west moon. Come un brano folk da accompagnare a una chitarra scordata e, che ne so, a un banjo. Un pezzo di bluegrass da Medicine Show. La poesia di Dylan Thomas era qualcosa di molto simile a un blues, non per niente dal piccolo mondo gallese in cui ha vissuto, per tutta la vita ha guardato verso Ovest e proprio durante uno dei suoi tour americani quella vita ha pensato di perderla. A New York, nel 1953.
La tomba del poeta (Allen De Vries / Hulton Archive)
Un tempo si diceva che il Galles ha due problemi al mondo: le miniere e le distillerie. Perché spesso le une incrociano il proprio lavoro con le altre e fanno passare la voglia di vivere. È inutile parlare dell’alcolismo e del sospetto di cirrosi epatica mascherata da polmonite che l’ha ucciso. È inutile sottolineare l’ironia dell’uomo dei boschi che muore nella metropoli per antonomasia, ammazzato dallo smog e dalla vita viziata.
Dopo il 1934, anno delle Diciotto poesie, le raccolte si susseguono veloci e i versi si sovrappongono tra loro, gorgogliano nel vortice di quella visionarietà ante litteram che lo avrebbe poi consacrato a ispiratore onorario della beat, avrebbe fatto sì che un noto cantautore scegliesse il suo come nome d’arte — forse, ma Zimmerman ha sempre sostenuto il contrario — e che un noto fumettista battezzasse la sua creatura più famosa in memoria. Nel 1940 esce Ritratto dell’artista cucciolo, mentre è del 1946 Morte e ingressi, che lo chiude nell’abbraccio della comunità artistica internazionale, che più volte lo ha sollevato dal pozzo nero della disperazione e della negatività in cui scivolava assieme alla moglie ballerina. C’è tutto l’immaginario rurale britannico, misto alla spinta pionieristica della scoperta, al richiamo dell’avventura e a una sorta di religione pagana che dalle divinità degli alberi arriva al dio cristiano. Senza ragione di continuità, ma in maniera perfettamente comprensibile e giustificata dalla furia della scrittura. Come i tasti di Miles Davies, che andavano da soli e le sue dita non avevano che da seguirli, la poesia di Thomas andava da sé.
Dylan Thomas aveva lo sguardo perso, affumicato e intasato dal veleno, che non c’entra nulla con l’abuso di alcolici. Aveva l’accento marcato e viziato che per fortuna il tempo non ci ha portato via, e continua a vivere in una delle sue opere più famose, amplificata dal tour mondiale degli anni ’50 e tenuta a livello etere dalla BBC: Under Milk Wood, un dramma che dà sfogo a tutto il complesso immaginario che popolava sogni e incubi di Thomas. Una specie di canto barbaro per dipingeva una nazione inesistente se non nella geografia resa morbida dalle colline e castrata dal mare su tre lati e dall’Inghilterra sul quarto. Un racconto marinaresco, ruvido e impietoso verso gli abitanti della cittadina immaginaria di Llaregubb, rintracciabili in praticamente qualsiasi gallese in vita, e guidati dalla cecità del capitano Cat, nel cui disincanto vive quello del poeta. Stanco e vecchio a nemmeno quarant’anni.
Igor Strawinsky ha composto In memoriam Dylan Thomas dopo averlo visto andarsene con i propri occhi e forse questa, assieme alla voce del poeta stesso, è la maniera migliore per spiegare quell’entità «che non può dirsi uomo, ma nemmeno più bestia».