Oggi, martedì 3 giugno, si vota in Siria per eleggere il Presidente di un Paese sconvolto da oltre tre anni di guerra civile, 150 mila morti e milioni di profughi. Si tratta di «una farsa e un insulto» secondo il segretario di Stato americano, John Kerry. Parole condivise dal leader dell’opposizione siriana Ahmad Jarba. I candidati alla presidenza sono sette: sei “fantocci” (tra cui una donna) e il presidente uscente, sicuro vincitore, Bashar al Assad. Molte le limitazioni al voto: escluso chi risiede da più di dieci anni all’estero, chi è sposato con cittadini non siriani, chi non è nato in Siria e chi ha condanne pendenti.
Ma la scontata vittoria politica per Assad non è tanto importante quanto quella militare. Nel corso dell’ultimo anno la situazione sul campo si è capovolta. Ad aprile 2013 i ribelli controllavano la maggior parte del Paese, in particolare le aree rurali, e i governo era sotto attacco in molte delle città ancora in suo possesso. Poi le offensive governative, fortemente supportate dai miliziani sciiti libanesi di Hezbollah, hanno ribaltato lo scenario. Lo scorso giugno, con la conquista di Al Qusayr, i lealisti hanno ottenuto una prima importante vittoria strategica. Il mancato intervento americano a settembre, la vittoria del regime nella regione del Qalamun a dicembre – fondamentale per tagliare le linee di rifornimento dei ribelli attraverso il Libano – e l’ultima offensiva di questa primavera (che ha portato a riconquistare la città simbolo della rivolta, Homs, e a porre sotto assedio i ribelli rimasti ad Aleppo) hanno poi definito il quadro attuale, con il governo in posizione di forza. I ribelli comunque si stanno riorganizzando soprattutto nel sud-est del Paese e nel nord, vicino alla roccaforte alawita di Latakia, dove hanno ottenuto anche di recente alcune vittorie.
La situazione militare conferma la regola strategica per cui i tempi lunghi aiutano le forze regolari, dotate di aviazione e armamenti pesanti. Sono poi state determinanti le divisioni interne ai ribelli. Dopo la sconfitta del Qusayr si è creata una frattura tra laici e fondamentalisti islamici, e in quell’occasione i curdi del nord – ben organizzati militarmente – si sono sempre più staccati dal resto della ribellione, indebolendola. A fine 2013 sono cominciati gli attriti anche all’interno dei gruppi jihadisti, in particolare tra Al Nousra (sostenuta da Al Qaeda) e l’ISIL (Islamic State of Iraq and Levant), gruppo estremista composto soprattutto da stranieri. Le faide tra gruppi sono sfociate in scontri armati molto sanguinosi. Oltre alle divisioni interne, sulla situazione di debolezza dei ribelli ha pesato il carente e disomogeneo sostegno internazionale. Se l’Arabia saudita non ha risparmiato nel finanziare i gruppi di opposizione siriani – laici o fanatici, purché non Fratelli Musulmani – l’Occidente ha presto ridotto al minimo il proprio coinvolgimento. Il fronte internazionale filo-governativo, capeggiato dall’Iran e dalla Russia, è stato più compatto e decisivo nella gestione del conflitto.
Il mancato intervento militare dell’America è stato da più parti presentato come una vittoria diplomatica del presidente russo, Vladimir Putin, e i successi militari di Assad sono figli dell’interessamento diretto nella guerra dell’Iran. La teocrazia sciita ha armato e finanziato Damasco, coinvolto Hezbollah e gli sciiti iracheni, inviato alcuni suoi reparti speciali (Quds Force) e, stando alle ultime indiscrezione, sta reclutando rifugiati afghani con la promessa della cittadinanza iraniana e di sostegno economico. Ha insomma impresso la svolta alle operazioni sul territorio. Tuttavia se la consistente avanzata sul campo del regime di Assad fosse figlia solo della protezione dei due “angeli custodi”, russo e iraniano, non si capirebbe perché adesso la situazione non sia prossima a ribaltarsi ancora una volta.
La trattativa con l’Iran – formalmente sul dossier nucleare, ma in realtà estesa all’intero quadro geopolitico dell’area – è in un momento di stallo e diversi analisti ritengono che sia destinata al fallimento. Troppo debole la linea strategica (e la leadership) di Obama perché Teheran possa rischiare di sbilanciarsi su un accordo che una diversa amministrazione a stelle e strisce potrebbe non condividere e disattendere. Se dunque l’America avesse un reale interesse a provocare la caduta di Assad questa sarebbe una finestra temporale favorevole: l’alleato iraniano del regime di Damasco potrebbe minacciare gli Usa di ritorsioni su un tavolo negoziale già diventato inerte. Anche la Russia è in un momento di debolezza per via della questione Ucraina. Perché allora gli Usa non ne approfittano?
Il motivo è semplice: il primo – anche se occulto – “angelo custode” di Assad è proprio l’America. Troppe le infiltrazioni del terrorismo islamico internazionale (e non solo Al Qaeda) nella ribellione siriana. Troppo rischioso armare e addestrare soggetti che un domani potrebbero rivoltarsi contro l’Occidente. Troppo delicati gli equilibri regionali che rischierebbero di saltare tutti in un colpo solo (Libano, Giordania, Iraq, Israele etc). Se cadesse la presidenza di Assad – come confermato ancora di recente dal Generale americano Martin Dempsey – non ci sarebbe una exit strategy, il Paese rimarrebbe in stato di guerra civile e al potere rischierebbero di andare persone ritenute più pericolose del dittatore alawita.
Ovviamente gli Usa non risparmiano violenti attacchi (verbali) e accuse al regime siriano. Sul campo hanno inviato propri uomini in aiuto ai ribelli e, pare, inviato “mercenari” della Academi (ex Blackwater). Ma considerata la quantità esigua e la qualità (niente aviazione, niente armamenti pesanti, niente contraerea) del supporto americano si può dedurre che l’interesse primo di Washington sia avere occhi e orecchie sul terreno, non dare una spallata decisa ad Assad. Non è un caso che durante i giorni più tesi della crisi ucraina sul tavolo delle trattative tra Putin e Obama non sia mai arrivata la Siria come possibile contropartita o materia di ritorsione: su un punto che vede già identità di vedute tra le due parti è inutile trattare.