“Elezioni di secondo grado”: questa è la definizione che molti scienziati politici hanno usato per definire le elezioni europee, fin dalle prime, nel 1979. Attenzione, qui si parla di scienziati politici, non di politologi: quindi professori che sanno usare i numeri, rielaborare le statistiche, affrontare con cognizione di causa un’ampia mole di dati. Ergo, forse i più titolati a parlare del passato ma anche del futuro per quanto riguarda i risultati elettorali.
L’esito delle Europee è incerto, comprese le eventuali ripercussioni sulla politica interna, si veda il caso dell’Italia. Impossibile dire chi vincerà, difficile individuare dei trend elettorali stabili, relativamente facile invece condurre un’analisi sulle elezioni passate per cercare di capirne di più.
È ciò che ha fatto il direttore del Department of Government alla London School of Economics and Political Science, che di nome fa Simon Hix ed è un convinto europeista, oltre che uno scienziato politico con numerose pubblicazioni sul Parlamento europeo nel suo portfolio. Hix ha scritto un paper molto interessante, assieme al Professor Michael Harsh del Trinity College di Dublino, sulle elezioni europee dal 1979 ad oggi, cercando di trovare evidenza empirica in merito a due questioni che lo arrovellavano.
All’inizio si è chiesto se era vero che i partiti al governo perdono voti rispetto alle elezioni nazionali precedenti. In maniera più elaborata, se i partiti che vincono un’elezione nazionale, e quindi vanno al governo, perdono o guadagnano voti nelle elezioni europee successive, rispetto a quelli che invece non sono al governo. C’è qualche anomalia. Un esempio? Quei Paesi dove i partiti raramente vincono davvero e al governo non vanno mai da soli. Ma qui la questione si farebbe lunga, meglio soprassedere ed evitare troppi riferimenti…
In un secondo momento, si è chiesto se per caso i partiti grandi tendano a perdere voti rispetto ai partiti più piccoli, una regola quasi “aurea” in molte democrazie contemporanee.
A tutte e due le domande ha risposto con un convinto sì, dopo aver sviluppato un’analisi piuttosto semplice.
Innanzitutto, di elezioni europee dal 1979 ad oggi ce ne sono state sette. Il campione statistico quindi non è ampio, ma la mole di dati è notevole. Per queste sette elezioni, Hix e Marsh hanno dapprima analizzato i risultati di tutti i Paesi europei fino a oggi, scegliendo poi di focalizzarsi solo sui dieci che facevano parte dell’Unione già nel 1979, per vedere se in questi “vecchi” Stati membri vi fosse stato qualche cambiamento rilevante nel corso del tempo. Questa ipotesi si è risolta in un nulla di fatto. L’analisi dei 10 Paesi che erano nell’Unione europea nel 1979 (eccoli: Italia, Francia, Germania Ovest, Lussemburgo, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda), infatti, ha dimostrato che, almeno per quanto riguarda il comportamento di voto, l’allargamento dell’Unione europea può aver portato i cittadini degli Stati membri a omogeneizzare le proprie preferenze.
Ma veniamo all’analisi vera e propria. Come si può vedere nella Fig.1, che riporta le diminuzioni di consensi medie di tutti i partiti al governo al momento delle Europee, i risultati sono sorprendenti. Anzi, a parte un recupero nel 1999 (la lunga coda della stagione dell’Ulivo mondiale?), si può notare come in tutte le elezioni vi siano perdite di voti notevoli, che arrivano in certi casi a toccare punte del 10 per cento.
Nella figura 2, invece, si può osservare la media dei voti persi/guadagnati da parte di ciascuna famiglia politica. Di quest’ultime, le uniche tre che perdono voti nei trent’anni considerati rappresentano i principali partiti “grandi” nell’Unione europea, ovvero socialisti, liberali e conservatori. Tutti e tre, non a caso, anche partiti di governo in quasi tutta Europa.
Quale insegnamento trarre da questi dati? Per cominciare, non è detto che anche questa volta vada così. Le premesse sembrano esserci, stando ai sondaggi di Pollwatch – organizzazione già nota ai lettori de Linkiesta e fondata dallo stesso Hix -, che ha fornito previsioni periodiche della ripartizione dei seggi nel prossimo Parlamento europeo. Ma i sondaggi fanno sempre in tempo a essere smentiti.
Inoltre, altri tre elementi possono mitigare gli esiti e la veridicità dell’analisi, oltre a suonare polemici nei confronti dei media e del loro modo di trattare le elezioni europee. Come prima cosa, non è vero che la crescita dei partiti anti-europei è così pronunciata: nel 2009 il partito paneuropeo euroscettico Libertas ottenne un risultato pessimo (un solo seggio), nonostante la vittoriosa campagna contro il Trattato di Lisbona in Irlanda. Secondo elemento: il voto ai Verdi è sovrastimato, nonostante i buoni risultati che hanno ottenuto nel tempo e nonostante presentino due candidati alla Presidenza della Commissione quest’anno. Terzo ed ultimo elemento, il più importante: i partiti legati al Partito socialista europeo (Pse) di solito hanno un risultato negativo alle Europee. Sarà il simbolo? Sarà la difficoltà di andare oltre il loro perimetro abituale? Gli autori non lo dicono. La statistica invece parla chiaro: il Pse continua a rimanere in un limbo perenne tra vittoria e sconfitta, senza mai riuscire a imprimere quella svolta alla campagna che lo porti a ottenere un numero di seggi decisivo. Probabilmente è la stessa natura del Parlamento europeo che provoca questo fenomeno, ma dai risultati di quest’ottava tornata elettorale paneuropea sapremo ad esempio se la scelta di legarsi al Pse, per un partito grande e di governo come il Partito democratico, smentirà questa analisi o la confermerà.