LONDRA – In Italia il capitale è svantaggiato rispetto al debito. È questo uno dei passaggi chiave delle consuete Considerazioni finali di Ignazio Visco, che quest’anno ha dedicato molta attenzione al fieno che banche e imprese tengono in cascina per proteggersi dall’inverno della deflazione.
Il governatore della Banca d’Italia da un lato ha osservato come il patrimonio di migliore qualità degli istituti di credito sia «salito dal 7,1 per cento delle attività ponderate per il rischio nel 2008 al 10,5 nel 2013», sottolineando che «nei primi cinque mesi di quest’anno dieci gruppi bancari hanno effettuato o annunciato aumenti di capitale per 11 miliardi» in vista dell’esame Bce.
Dall’altro, per la medesima ragione, l’inquilino di Palazzo Koch ha puntato il dito contro l’annoso problema delle imprese italiane: «L’indebitamento elevato e la dipendenza dal credito bancario sono segnali di vulnerabilità finanziaria». «Con quasi 1.300 miliardi di debiti finanziari e 1.600 di patrimonio netto», ha notato Visco, «il complesso delle aziende italiane ha una leva del 44 per cento; il credito bancario rappresenta il 64 per cento dei debiti complessivi. Per l’area dell’euro queste grandezze sono decisamente più basse, in media pari al 39 e al 46 per cento». Riportare la leva in linea con la media europea, calcola Visco, comporterebbe «un aumento del patrimonio di circa 200 miliardi e una pari riduzione dei debiti». Uno sforzo finanziario non impossibile nel medio termine, dice Bankitalia, a patto di «riforme strutturali» che agevolino il processo.
Tre sono gli elementi che per il governatore remano contro all’aumento dei “mezzi propri” delle imprese: l’inciucio tra banche e grandi imprese, la difficoltà per le piccole di finanziarsi tramite capitale di rischio e il trattamento fiscale sfavorevole al capitale. Sul primo punto, dove negli ultimi dodici mesi gli esempi non sono certo mancati – Alitalia, Camfin, Risanamento, Tassara – Visco non ha usato mezzi termini: «Spesso le grandi banche italiane, oltre a erogare credito, detengono quote del capitale delle imprese. Il legame partecipativo non deve distorcere le scelte di affidamento o ritardare l’emersione delle difficoltà dei debitori». Un messaggio forte e chiaro.
Sul secondo, il governatore rileva positivamente che «nel 2013 i collocamenti lordi di titoli da parte di emittenti italiani hanno sfiorato i 40 miliardi, quasi il doppio rispetto a quelli degli anni precedenti la crisi», ammettendo però che si tratta di uno strumento accessibile solo alle medie e grandi imprese. I minibond sono ancora un mercato in fasce: i dati di Borsa Italiana indicano che dal lancio di questo strumento dedicato alle piccole imprese, il 21 marzo 2013, “solo” 31 società hanno emesso 36 strumenti quotati sul segmento ExtraMot per un controvalore complessivo di 3 miliardi di euro.
Il terzo motivo è il più importante, e riguarda più in generale la difficoltà delle piccole imprese di andare in Borsa. Per gli imprenditori onesti che non evadono e non distraggono risorse alla ricerca e lo sviluppo per acquistare lo yacht o la casa al mare, il fisco è nemico. Grazie alla normativa sull’Allowance for corporate equity, implementata nella Finanziaria 2014 ma introdotta nel 2011, «nel biennio 2012-13 quasi il 40 per cento delle aziende con più di 20 addetti abbia aumentato il patrimonio netto» stima Bankitalia. In pratica il rendimento figurativo del nuovo capitale immesso in azienda che sarà deducibile dai ricavi passerà dall’attuale 3% al 4% a fine 2014 al 4,5% nel 2015 e al 4,75% nel 2016. Al contrario, gli interessi passivi sul debito sono interamente deducibili, quindi perché aprire il portafoglio se le banche lo fanno per te (o lo facevano)?
Se i dati Bankitalia indicano le sofferenze, i crediti non più recuperabili, al 4%, il fondo centrale di garanzia – che nel 2013 ha consentito prestiti per 11 miliardi – è stato usato impropriamente dalle banche per liberare capitale prezioso da conteggiare ai fini di Basilea III, trasferendo il rischio di credito sulle spalle dei comuni cittadini e limitandosi a rinnovare i fidi concessi ad aziende in ottima forma, utilizzando però la garanzia pubblica. Non a caso Visco ammonisce: «La frammentazione degli interventi rischia di ridurre l’efficacia di uno strumento il cui scopo deve rimanere quello di facilitare l’accesso al credito di imprese piccole e medie indebolite dalla recessione ma fondamentalmente sane».
Per dare una stampella alle banche, Visco ha annunciato che «Nelle prossime settimane la Banca d’Italia varerà misure per migliorare ulteriormente la situazione di liquidità delle banche e agevolare per tale via la concessione di credito alle piccole e medie imprese» attraverso l’ampliamento della gamma «dei prestiti utilizzabili a garanzia del rifinanziamento presso l’Eurosistema». Trasferendo così il rischio direttamente in seno alla Bce, e dunque sulle spalle di tutti i cittadini comunitari.
Un’altra strada percorribile è quella delle cartolarizzazioni. Il 30 maggio la Bce congiuntamente con la Bank of England ha pubblicato un working paper per rivitalizzare un mercato, quello delle Asset backed securities (Abs), morto con il fallimento di Lehman Brothers. Si tratta di obbligazioni aventi come sottostante portafogli di crediti concessi alle imprese, suddivisi in tranche che offrono un rendimento diverso a seconda del differente grado di rischiosità. È lo stesso meccanismo dei famigerati mutui subrime. Eppure, per Mario Draghi e Mark Carney, governatore dell’istituto centrale inglese sono convinti che rendendo i dati più trasparenti per gli investitori e armonizzando la normativa europea sia possibile contenere l’azzardo morale su strumenti impacchettati in veicoli fuori dal bilancio degli istituti di credito, che sfuggono all’Asset quality review. Gettando luce sul sistema bancario ombra dove capitale e debito fluiscono liberamente, che secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale nel 2011 valeva 70mila miliardi di dollari.