PIL, ovvero la furia costruttiva del Punk

PIL, ovvero la furia costruttiva del Punk

Con la consueta impeccabile cura editoriale, la Rizzoli Lizard ci presenta PIL di Mari Yamazaki, un raffinato josei — vale a dire manga realistico diretto a donne o giovani ragazze — che capovolge con acume luoghi comuni incrostati ormai da più di trent’anni sul senso e l’importanza del punk.

Anger is energy
«Anger is an energy», ripete come un mantra beffardo e liberatorio John Lydon al termine di quello che è forse il brano più famoso del gruppo che dà il nome al fumetto. Potrebbe essere l’aforisma da porre in calce all’opera.

Dalla vicenda, solo apparentemente innocua, della giovane Nanami e di suo nonno nella Tokyo dei primi anni ‘80, il punk emerge come una predisposizione benedetta alla critica sociale, un furore sacro contro l’evidente ingiustizia che regola il mondo. Tutto l’opposto dell’esplosione sciocca e autodistruttiva di bestemmie e gestacci che lo stesso Lydon aveva astutamente inscenato sul palco, nella sua precedente incarnazione quale Johnny Rotten. E di cui il suo amico Sid Vicious sarebbe divenuto tragicamente reale e insensata vittima.

Il vero spirito punk
In questo senso, i PIL appaiono proprio come l’antitodoto ai Sex Pistols. Questi ultimi avevano recato a testa alta la bandiera bianca del nichilismo, della sconfitta di ogni senso, del fallimento di ogni protesta in quanto di per sé già assorbita, manipolata e rivenduta dal meccanismo del Sistema, e si dichiaravano orgogliosamente «la più grande truffa del rock ‘n’ roll».

Il nuovo gruppo convertiva quell’immensa riserva di frustrazione generazionale in un urlo di speranza, per quanto deformato in una smorfia di sberleffo. Un ruolo che già avevano incarnato, in maniera potente e genuina, The Clash.

Ed è la riscoperta di questa attitudine, nel libro indicata come il vero «spirito del punk», ad essere il messaggio dirompente del libro. Dirompente non in quanto punk, ma perché sbaraglia gli stessi luoghi comuni punk. Un messaggio che rivolta il concetto stesso di rivolta.

Capovolgimento del conflitto generazionale
Si dice spesso che la mia generazione — quella dei trentenni/quarantenni condannati alle sabbie mobili della precarietà perenne — stia pagando il conto della incosciente spensieratezza di quelle precedenti, inebriate dall’improvviso benessere successivo alla tragedia della seconda guerra mondiale. Senza entrare nel dibattito sulla validità della tesi, possiamo affermare che in questo senso il libro è di grande attualità.

Il racconto capovolge i ruoli del consueto conflitto generazionale: il nonno, benché adorabile, è uno spendaccione irresponsabile ed egoista, al contempo oppressivo, ottuso seguace di tradizioni ormai prive di sostanza; la giovane nipote, costretta a pagare la scelta della madre di inseguire i suoi sogni d’artisti, è saggia, responsabile, concreta, pur amando la ribellione oltraggiosa dei gruppi punk. Lui le fa sempre la morale, ma butta i pochi soldi che lei porta a casa nel gioco d’azzardo. Lei è tacciata d’essere indisciplinata, ma in realtà ammira i lavoratori, aspira alla loro indipendenza, ottenuta faticosamente col sacrificio.

Invece di desiderare le vane soddisfazioni dell’ego, come le sciocche compagne del liceo cattolico dove è costretta ad andare — splendidamente definito «fabbrica di manichini» — Nanami sogna di lavorare come supremo atto di dignità. Dignità, la prima pietra per la costruzione interiore di una personalità libera.

Smascherando i falsi ribelli
C’è una sequenza memorabile in questo fumetto: il nonno, in un momento di gloria assoluta, smaschera un finto punk nel suo essere solo un patetico ladruncolo, indicando come esempio della vera attitudine gli operai che stanno ristrutturando le strade: «a loro non interessa portare una cresta o indossare una cintura piena di borchie…eppure incarnano perfettamente il vero spirito punk!». Poi, con studiato gesto oratorio da consumata rockstar, si volta e lo addita con disprezzo: «YOU ARE A FAKE!». Ecco.

Se l’Unione Europea avesse davvero un senso, avrebbe già provveduto a stanziare fondi per realizzare il più urgente dei progetti culturali: incidere queste tavole, a perenne monito di qualsiasi “alternativo”, in oro rosa su alabastro, nel punto prospetticamente più visibile nel quartiere di Kreuzberg a Berlino, nel Quartiere Latino a Parigi e a San Lorenzo a Roma. A Camden Town a Londra si vedrebbero costretti a seguirne subito l’esempio.

La rivolta come forma di ascesi
Ogni volta che Nanami malvolentieri si reca a scuola, passa accanto ad una statua della Vergine Maria. Una figura che, superficialmente, potrebbe essere letta come l’icona fittizia del ruolo femminile sottomesso imposto dalle convenzioni sociali, contrapposto all’impetuosa ribellione della ragazza.

A me piace interpretarla, invece, come una presenza testimone, silenziosa come la Verità, un archetipo che vigila sull’evoluzione della vicenda. Un faro di quiete nella confusione dell’adolescenza.

C’è molto di ascetico nella rivolta di Nanami contro la miseria dell’impazzimento materialista che la circonda. Nel lavoro non cerca i soldi, ma l’indipendenza. Quindi, arrivando all’essenza, cerca la libertà. Non quella esteriore, delle facili e ormai sdoganatissime trasgressioncine piccolo-borghesi. Una libertà interiore.

Non a caso, la sua minaccia costante è quella di farsi monaca, proprio nello sprezzo dei ruoli femminili imposti, e nel libro appare, evidente ammiccamento al lettore, la biografia della monaca buddista Seto Jakucho. In un mondo privo di valori e certezze, posseduto dal cieco istinto di soddisfare le esigenze più effimere, la santità è rivoluzionaria.

Quella che potrebbbe apparire una interpretazione peregrina e forzosa, alla fine del libro è confortata da una inattesa conferma: Nanami appare rasata, furente, maestosa mentre, impugnando le cesoie da giardinaggio, scaccia i molesti acquirenti della casa del nonno. Lo strumento dell’umile lavoro quotidiano diventa l’arma temibile per scacciare gli squali del capitale.

La parrucca cade, con essa l’orpello della femminilità convenzionale, rimangono il capo rasato e lo sguardo fiero. Nanami ci appare un furia incantevole nella sua giusta collera, una nipponica Giovanna d’Arco in nuce. Giovanna D’Arco, ricordiamo menzionata come “incantatrice” in uno dei brani più misteriosi e affascinanti dei PIL, “Four Enclosed Wall”, i cui versi beffardi sono salmodiati da Lydon come un muezzin blasfemo.

Una irriducibile empatia
Per chi non ha avuto in dote dal destino l’insidiosa ventura di nascere ricco, è impossibile non identificarsi con la protagonista, mentre passa la giornata di lavoro a elaborare i calcoli mentali delle spese da sostenere, per poi scoprire che il salario è molto inferiore a quello che le era stato promesso.

Allo stesso modo è impossibile non volere bene alla fanciulla punk, al suo sguardo insieme sbarazzino e grave, nell’inconsapevolezza quasi sfrontata della propria bellezza. Bellezza che nel momento in cui s’ignora, negandosi la vanità di qualsiasi orpello, ancora di più risplende nella sua spartana e fiera semplicità.

A rendere il tutto più toccante alla fine del libro scopriamo la disarmante confessione dell’autrice, che esplicita l’ispirazione autobiografica ritraendosi nell’impudente splendore della sua adolescenza ribelle.

Pur non essendo un amante del genere, e non rimanendo impressionato dalla narrazione, ho amato questo libro per la sua intuizione fondamentale: mostrare che la vera rivolta è diventare spontaneamente se stessi.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter