Su 6mila società partecipate da amministrazioni locali, un terzo è in perdita. Altre 1.200 circa arrivano solo al pareggio. Il tutto contornato da investimenti pubblici che non hanno particolare criterio. Più o meno 1.500 svolgono attività scientifiche e qualche centinaio si occupa di costruzioni. Perché? Non è dato saperlo. Come non si comprende il perché tra le 25mila partecipazioni detenute direttamente dalle amministrazioni locali, 16mila rappresentano quote sotto il 4 per cento. L’imperativo da tempo, ancor più con l’era del commissario alla spending review, è razionalizzare e privatizzare. Ma la domanda d’obbligo è: un privato investirà in tali aziende? Perché dovrebbe metterci dei soldi? Che governance ci troverà? Domande retoriche. Che vengono però troppo spesso scansate. O affrontate a parole. Eppure, in certi casi, la tipologia di governance può valere più del rating. E proprio di buone pratiche di governance delle imprese se ne parlerà il 10 giugno prossimo nel corso della terza edizione del Premio “Ambrogio Lorenzetti” organizzato da GC Governance Consulting.
Secondo un calcolo fatto di recente dall’Osservatorio sull’eccellenza dei sistemi di governo in Italia di “The European House – Ambrosetti”, per raggiungere i livelli francesi e tedeschi di investimenti esteri (istituzionali) nelle quotate italiane servirebbe una iniezione di almeno 90 miliardi. Il gap invece rimane per diversi fattori arcinoti. Dal fisco alla burocrazia fino all’incertezza del diritto. A parità di zavorre, le aziende che hanno investito in una buona governance si trovano decisamente avvantaggiate. Gli investitori internazionali (Ambrosetti ne ha interpellati con attivi gestiti pari a 4.300 miliardi di euro) guardano con attenzione alla composizione dei cda, alle competenze dei consiglieri, nonché alla presenza di membri indipendenti nel consiglio. Le quotate negli ultimi anni hanno fatto notevoli passi avanti. È cresciuta la componente di esperienza internazionale e il peso dei consiglieri indipendenti è aumentato toccando il 50% nel 2012. Sette punti in più rispetto al 2011. Altro punto da non sottovalutare è la politica dei compensi ai dirigenti con responsabilità strategiche. Gli investitori istituzionali interpellati dall’Osservatorio su questo aspetto hanno definito tre criteri fondamentali di valutazione. Il primo è la dichiarazione dei parametri in base ai quali maturano i bonus. Il secondo è la trasparenza sui trattamenti di fine mandato e il terzo è il peso delle singole grandezze di performance. Sugli ultimi due aspetti – tanto per dare un ordine di grandezza – la stessa ricerca dell’Osservatorio ha sottoposto agli investitori internazionali 185 eventi assembleari nei quali sono state affrontate operazioni di fine mandato superiori alle due annualità. Risultato: il 40% degli eventi è stato bocciato. È facile immaginare che voto darebbero in caso di aziende partecipate come le ex municipalizzate. Dove il lavoro verso una totale disclosure degli obiettivi resta ancora enorme.
La galassia delle partecipate pesa per 22 miliardi di euro all’anno sulle casse degli enti locali e produce inefficienze nel 63,9 per cento dei casi affossando la già difficile ordinaria amministrazioni di piccoli e grandi Comuni. Il governo Renzi ha promesso di occuparsene. Nel quadro più ampio della spending review, ha dedicato un capitolo all’efficientamento. Si intitola “Disciplina vincolistica sulle società partecipate delle pubbliche amministrazioni locali e miglioramento della governance”. Da un lato un processo di “aggregazione” delle municipalizzate inefficienti. Mentre dall’altro si vorrebbe creare una tagliola che scatta qualora il bilancio di una società partecipata sia in perdita per due anni di fila. In qual caso dovrebbe scattare la privatizzazione. O la vendita delle quote o la liquidazione della società se la partecipazione dell’Ente locale risultasse superiore al 50 per cento. In sostanza, l’obiettivo è impedire si vadano a ripianare i buchi per più di due anni di seguito. Il caso dell’Atac di Roma è ormai diventato da manuale. Non a caso il decreto Salva Roma pur deludente perché non è riuscito ad additare le responsabilità contiene delle novità che lasciano ben sperare. E obbligano i sindaci a cercare l’ottimizzazione dei servizi e la riduzione dei costi.
Ignazio Marino, sindaco di Roma, quando ha illustrato il piano di rientro per la riduzione del disavanzo della capitale, non ha escluso l’ipotetico ingresso di soci privati nelle partecipate. «Nuovi processi di governance e razionalizzazione delle aziende partecipate di primo e secondo livello sono gli asset sui quali basiamo la nuova organizzazione», ha detto il sindaco, «ciò non va inteso come la messa in liquidazione delle società, ma come un processo che contempli anche operazioni societarie più articolate, quali fusioni, incorporazioni, senza escludere forme di apertura a nuovi soci pubblici o privati interessati allo sviluppo del business». Le municipalizzate romane sono 26. Come immaginare un risanamento senza una razionalizzazione? E soprattutto un socio privato come potrebbe avventurarsi in una giungla pubblica senza prima avergli garantito una vera riforma della governance? È difficile anche solo immaginarlo. Il discorso vale ovviamente per l’intera penisola, non solo per la capitale.
Eppure nel settore pubblico il tema della governance si è sempre mosso attorno alla necessità di garantire una condotta delle istituzioni rispettosa dell’interesse pubblico. Il legislatore si è maggiormente concentrato sull’esigenza di definire i confini delle responsabilità di indirizzo, proprie della politica, e meno di quelle di gestione, proprie del management. Insomma l’obiettivo è sempre stato bandire la politica. Il risultato in molti casi è stato invece opposto. I poteri anche di indirizzo sono finiti nelle mani del management col risultato di far rientrare le ingerenze politiche dalla finestra. Altri problemi sono sorti con la governance duale, ma ciò aprirebbe un capitolo molto ampio. Ci interessa invece sottolineare che anche l’ultimo tentativo di riforma delle partecipate pubbliche, inserito nell’articolo 4 del Dl 138 del 2011, ha mostrato un approccio al tema governance più legato agli effetti piuttosto che alle cause. Si è concentrato sull’esternalizzazione dei servizi, sulla limitazione delle attività in house, piuttosto che sulle regole della gestione pubblica. In pratica ha definito quando fare le gare e ha tralasciato aspetti che definiscono come giungere a farle nell’interesse pubblico. E con quali risorse di esercizio e quali investimenti.
In poche parole le società partecipate vanno prima efficientate e regolamentate. E solo dopo privatizzate. È chiaro. Si tratta di un processo logico e lampante. Ma il rischio che avvenga il contrario è fortissimo. Se non vogliamo che lo Stato svenda le proprie partecipazioni è bene ribadirlo. Anche perché senza un vero rinnovamento della governance anche un futuro partenariato pubblico-privato sarebbe destinato a nascere monco. Privo degli anticorpi adeguati per evitare i conflitti di interesse tra azionisti privati e pubblici e tra affidanti ed azionisti. È questo il momento di rimboccarsi le maniche e fornire strumenti di governance all’avanguardia. Fra un po’ potrebbe essere troppo tardi.