La Commissione Europea insiste a dire che l’Ue ha già fatto molto per aiutare Paesi in prima linea come l’Italia sul fronte dell’immigrazione. C’è del vero, ma molti si sono dimenticati che esisterebbe uno strumento che potrebbe aiutare l’Italia a ridistribuire il peso dello sforzo della prima linea, e che invece rimane curiosamente chiuso in un cassetto: si chiama direttiva per la protezione temporanea (2001/55/CE) in caso di afflusso massicci di rifugiati. Una direttiva che risale al luglio 2001, ancora fresche le tragedie dell’ex Jugoslavia (la più vicina allora era la crisi in Kosovo con annessa guerra Nato contro Belgrado nel 1999) con i relativi ingenti flussi di rifugiati.
La direttiva – che deve però essere «attivata» in caso di emergenza – delinea una situazione non troppo dissimile da quella che sta vivendo il Mediterraneo. «I casi di afflusso massiccio di sfollati che non possono ritornare nel loro Paese d’origine – si legge nella premessa (ed era il 2001) – hanno assunto proporzioni più gravi negli ultimi anni in Europa. In tali casi può essere necessario istituire un dispositivo eccezionale che garantisca una tutela immediata e transitoria a tali persone». E l’«afflusso massiccio» viene così definito: «l’arrivo nella Comunità di un numero considerevole di sfollati, provenienti da un Paese determinato o da una zona geografica determinata». Sembra applicarsi ai profughi siriani, eritrei, somali, che arrivano in numeri sempre più massicci nel Mediterraneo. La stessa Commissione Europea, per bocca di un portavoce del commissario agli Affari interni Cecilia Malmström, ammette: «Ormai la stragrande maggioranza di quanti attraversano il Mediterraneo sui barconi è costituito da profughi». Le persone così accolte potranno, per un periodo limitato, risiedere in un Paese Ue e anche esercitare attività lavorative. Il tutto con l’accesso al fondo europeo per i rifugiati (che per il periodo 2008-2013 è stato di 614 milioni di euro).
Particolarmente interessante per l’Italia e gli altri Paesi più esposti, è l’articolo 25.1 della direttiva: «Gli Stati membri accolgono con spirito di solidarietà comunitaria le persone ammissibili alla protezione temporanea. Essi indicano la loro capacità d’accoglienza in termini numerici o generali». Tradotto: tutti gli Stati membri dell’Ue dovranno, in un modo o nell’altro, partecipare agli sforzi di accoglienza, anche se la direttiva lascia ai governi di indicare la misura della propria disponibilità. È quello che in gergo a Bruxelles chiamano burden sharing, ripartizione degli oneri.
Problema: la direttiva deve essere «attivata» secondo un percorso preciso. E cioè la Commissione indica che si è creata una situazione di emergenza tale da farla «scattare», e gli Stati membri, nell’ambito del Consiglio Giustizia e Affari interni, devono approvare la richiesta a maggioranza qualificata. Ebbene, almeno finora il commissario competente, la svedese Cecilia Malmström non ha ritenuto di richiederne l’attivazione, nonostante i numeri sempre crescenti di profughi nel Mediterraneo e le chiare indicazioni di un crescente aumento di profughi di Paesi in guerra come Siria, Eritrea, Somalia. E dire che l’Italia, nell’aprile 2011 (allora era ministro dell’Interno Roberto Maroni) aveva esplicitamente chiesto l’attivazione, allora sulla spinta dei flussi di tunisini e libici in fuga dai propri Paese nel quadro delle Primavere arabe. Il commissario allora scrisse a Maroni dicendo di nutrire «dubbi sulla sussistenza delle condizioni di applicazione della direttiva».
La ragione? Il commissario ammise di non vedere chance che la richiesta potesse passare in Consiglio, non essendovi la maggioranza necessaria per approvarla. Lo stesso Maroni allora spiegava che gli unici alleati dell’Italia erano Malta, Spagna, Grecia e Portogallo. Troppi pochi, mentre apertamente contrari – proprio per non dover sottostare al burden sharing – erano Paesi come la Svezia (Paese di origine del commissario), Francia, Germania, Belgio e altri. Il loro argomento, peraltro, non è del tutto peregrino: sono Paesi che, in termini assoluti, hanno a loro volta dovuto fronteggiare enormi numeri di richieste di asilo (più alti di quelli che riguardano l’Italia). Tra i contrari ci sono però anche tanti altri Paesi che non hanno né flussi da fronteggiare, né massicce richieste d’asilo (la Finlandia o l’Irlanda, ad esempio) ma che sono bene contenti di non esser chiamati a far nulla.
La situazione, da allora, è cambiata poco o niente. I flussi e le tragedie si sono ulteriormente ingigantiti, ma i «fronti» contrapposti rimangono gli stessi. E così una direttiva che potrebbe consentire una cooperazione europea e una migliore gestione di questo dramma rimane – come troppo spesso accade, purtroppo, nell’Ue – semplicemente lettera morta. Anche se Malmström adesso chiede agli stati membri «solidarietà». Lo strumento per dimostrarla ci sarebbe.