Quando si parla di elezioni europee, al di là dei pronostici su Beppe Grillo e Matteo Renzi e gli eventuali impatti sul governo, c’è un tema che sta scuotendo ampie parti dell’opinione pubblica in tutta l’Unione europea: i negoziati semisegreti tra Ue e Usa per quello che i suoi fautori hanno definito «la madre di tutti gli accordi commerciali». E cioè quello che in gergo tecnico viene chiamato Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), un colossale accordo di libero scambio che unirebbe le due regioni economicamente più sviluppate della Terra: Ue e Usa insieme costituiscono circa metà del pil mondiale e il 30% del commercio globale.
Proprio questa settimana, a pochi giorni dal voto, è riunita ad Arlington, in Virgina, la quinta tornata negoziale per una trattativa che sembra farsi sempre più in salita, con alcuni gruppi politici, Verdi in testa, che hanno fatto del no al Ttip uno dei punti chiave della propria campagna elettorale, insieme a numerose Ong, alcune anche note, come Greenpeace. Ad aprile, inoltre, sono state consegnate al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz (ora candidato socialdemocratico alla presidenza della Commissione Europea) 460mila firme di una petizione anti-Ttip organizzata dalla piattaforma “Compact”. Nella campagna per le europee la questione è stata toccata da un po’ da tutti i “candidati” presidenti della Commissione, a cominciare dallo stesso Schulz («gli americani imparino che sono una potenza mondiale, ma non i dominatori del mondi», ha detto vago), e dal popolare Jean-Claude Juncker, che invece si è detto fortemente a favore dell’accordo («aumenterà il Pil europeo e porterà molti posti di lavoro»).
Ma partiamo dall’inizio. Lo scorso luglio i Ventotto hanno dato il via libera al mandato negoziale (il cui contenuto, si noti bene, è stato mantenuto riservato) alla Commissione europea per far partire le trattative. Tra i grandi fautori ci sono ovviamente i britannici, ma anche la cancelliera tedesca Angela Merkel sostiene il negoziato. Certo, in gioco è un mercato gigantesco: già ora gli scambi commerciali tra Usa e Ue si aggirano intorno ai 4.000 miliardi di euro l’anno, dando lavoro (direttamente e indirettamente) a circa 15 milioni di persone. Inoltre il 60% degli investimenti Usa (per circa 1.500 miliardi di euro complessivi) sono diretti all’Ue, nell’altra direzione si parla di 1.200 miliardi di euro. In uno studio realizzato per la Commissione europea si calcola che l’eliminazione delle barriere non tariffarie (regolamenti, standard diversi, aiuti di Stato etc.) porterebbe (a regime) a un aumento dell’economia europea di 120 miliardi di euro l’anno e di quella Usa di 90 miliardi.
La questione, però, va ben al di là dei vantaggi economici. Anzitutto, preoccupa gli oppositori la totale mancanza di trasparenza, nessuno tranne gli addetti sa esattamente su quali punti, e come si sta negoziando. Negli Usa gli stessi parlamentari del Congresso sono informati solo in parte. «Devo davvero – ha detto in un’intervista a Die Welt anche il commissario europeo al Commercio Karel De Gucht- rivelare la mia tattica negoziale e le mie linee rosse? Così non si può negoziare».
La mancanza di trasparenza, però, è legata anche alla preoccupazione per le questioni discusse. Ad esempio quella relativa alla «protezione degli investimenti», con le aziende Usa che vogliono «tutelarsi» da normative Ue più severe rispetto a quelle americane. Soprattutto ha suscitato preoccupazione la prospettiva della creazione di un tribunale d’arbitraggio: il timore è che in questo modo si potrebbero aggirare le norme europee, o, peggio, costringere a modificare le leggi nazionali ed europee. «Queste proposte – ha tuonato Ska Keller, candidato per i Verdi europei alla presidenza della Commissione europea – significano che le aziende americane avrebbero il potere di metter bocca nel processo normativo europeo. E questo non è democratico». «Posso garantire – ha replicato De Gucht nell’intervista a Die Welt – che non daremo agli investitori alcuna possibilità di aggirare normative europee e nazionali. Per questo abbiamo sospeso per tre mesi i negoziati in materia» per una consultazione pubblica. Molti però non gli credono.
Soprattutto, domina sovrano il timore per un altro punto cruciale: l’abbattimento della barriere non tariffarie (il piatto grosso, visto che ormai i “normali” dazi si aggirano tra una media del 2,2% negli Usa e del 3,3% nell’Ue) che – dicono i critici – potrebbe implicare una riduzione degli standard europei che sono per lo più molto più severi di quelli Usa soprattutto in ambito agroalimentare. Lo spauracchio è quello, ad esempio, del cosiddetto «pollo al cloro»: negli Stati Uniti gli allevamenti avicoli hanno obblighi in materia di standard igienici e sanitari molto inferiori a quelli europei, in compenso «sterilizzano» i volatili abbattuti con una «doccia» di cloro. Altre preoccupazioni riguardano il vasto uso di ormoni nella carne bovina e suina, la clonazioni di animali da macello, l’ampio utilizzo di prodotti agricoli geneticamente modificati. Non è un caso se, mentre le esportazioni agroalimentari degli Usa verso il resto del mondo sono triplicate tra il 2000 a oggi, la quota americana del mercato Ue del settore è invece calata dal 12% al 9 per cento. A dire il vero, i negoziatori europei hanno giurato più volte di non avere alcuna intenzione di ridurre gli standard alimentari: «non cederemo di un millimetro» ha giurato De Gucht di fronte al Parlamento Europeo. Sarà ma, come ha avvertito la verde tedesca Bärbel Höhn, è certo che «l’apertura del mercato agroalimentare Ue ai prodotti americani è in cima all’agenda di Washington». Chi invece ha grossissimi interessi all’accordo è soprattutto l’industria automobilistica europea, che ha costi enormi per soddisfare standard di sicurezza diversi negli Usa e nell’Ue, ed è convinta che il Ttip aiuterebbe a unificarli.
Certo è che il negoziato è tutto in salita, anche perché Francia e Germania hanno ottenuto che si parli di negoziato «misto», e cioè con impatto diretto non solo per l’Ue nel suo complesso (nel qual caso unica a decidere è la Commissione Ue), ma anche per i singoli stati membri. In questo modo, dovranno dire sì tutti e 28 i parlamenti nazionali degli Stati membri, un’impresa tutt’altro che facile – anche se De Gucht ha chiesto alla Corte di giustizia Ue di verificare quali parti del negoziato rientrano nelle competenze nazionale. Il commissario però è sicuro: l’accordo entrerà in vigore entro fine 2015. Sono in pochi a crederci.