#Brasile2014, benvenuti al Mondiale degli oriundi

#Brasile2014, benvenuti al Mondiale degli oriundi

Una delle stranezze più grandi del calcio contemporaneo si chiama “paradosso Ibrahimovic”. Un fuoriclasse indiscusso del pallone, dieci campionati negli ultimi undici anni, costretto sul sofà mentre colleghi meno illustri e meno dotati di lui si sfidano in Brasile. Certo, Ibra non è l’unica stella rimasta a casa. C’è Gareth Bale, mister 100 milioni. O Carlos Tevez, “il giocatore del popolo”, ostracizzato dal ct Sabella. Il paradosso, però, è che il centravanti del Psg ha sbagliato nazione. Ha scelto la Svezia, lo Stato in cui è nato e cresciuto, ed è uscito agli spareggi, contro il Portogallo di Cristiano Ronaldo. Se avesse optato per la Bosnia, il Paese di origine del padre – come si evince dal cognome – avrebbe rimandato l’appuntamento col sofà.

La patria non è la madre, si può scegliere, tanto più nel calcio. Il “ragazzo del ghetto di Malmö” ha giustamente omaggiato la nazione che ha accolto i suoi genitori, alla fine degli anni Settanta, e con la Svezia ha già partecipato a un’edizione della Coppa del mondo, nel 2006. Ma è sempre più frequente che calciatori nati in un certo Paese scelgano di giocare per un altro, di cui detengono o acquistano il passaporto. Succede anche che un calciatore scenda in campo per una nazionale e poi decida di cambiare, dopo una serie di valutazioni. Ormai la doppia cittadinanza non è più un’eccezione così rara e molti giocatori sono nella condizione di poter sfogliare la margherita, prima di fare la scelta definitiva. Ai mondiali brasiliani ben 218 calciatori hanno in tasca un doppio passaporto: il più diffuso è quello francese (60 atleti) davanti a quello italiano (53), spagnolo (44) e tedesco (40).

Il fenomeno dei cosiddetti oriundi non è un’invenzione dei tempi moderni. Raimundo Orsi giocò la finale delle Olimpiadi del 1928 con la casacca dell’Argentina, prima di segnare il gol che portò l’Italia ai tempi supplementari nella vittoriosa finale contro la Cecoslovacchia, ai mondiali del 1934. Fuoriclasse come Schiaffino, Sivori e Altafini hanno vestito la maglia azzurra dopo avere indossato quella dei loro Paesi d’origine. Negli ultimi anni l’Italia ha rinverdito la tradizione: l’argentino Camoranesi nel 2006, il connazionale Paletta e il brasiliano Thiago Motta in questa edizione della Coppa del Mondo (e gli oriundi sarebbero stati tre, se Romulo fosse stato in condizioni fisiche accettabili). Ma la tendenza è ben più grande: dal 2007 ad oggi la Fifa ha ratificato ben 174 casi di passaggio da una nazionalità calcistica ad un’altra.

La regola, infatti, prevede che un giocatore possa cambiare maglia fino a quando non disputa una partita ufficiale a livello di nazionali A. In quel momento la scelta diventa irreversibile. Le competizioni giovanili non contano. Le amichevoli, neppure. Questo ha consentito a Diego Costa, l’uomo più odiato dal Brasile, di optare, alla vigilia del Mondiale, per la sua patria d’adozione calcistica, la Spagna. Il centravanti dell’Atletico Madrid, ormai prossimo al passaggio al Chelsea, aveva giocato per i verdeoro un match amichevole contro l’Italia nel marzo 2013. Dodici mesi dopo ha nuovamente affrontato gli azzurri, con la maglia spagnola, grazie a un passaporto arrivato giusto un anno fa. Lo scippo di Diego Costa ha fatto rumore, molto più rumore del caso Senna, inteso come Marcos, nato a San Paolo, regista della Roja campione ad Euro 2008.

Ci sono Paesi dal passato travagliato, in cui la dissociazione tra luogo di nascita e nazionalità calcistica è una conseguenza logica degli eventi politici. L’ideale-tipo, in questo senso, è proprio la Bosnia. Durante la guerra civile 800mila bosniaci, molti dei quali musulmani, furono costretti ad emigrare, soprattutto in Europa centro-settentrionale, e parecchi giocatori della rosa mondiale sono nati all’estero. Miralem Pjanic, il fuoriclasse della Roma, è cresciuto in Lussemburgo e ha la doppia cittadinanza. Un altro centrocampista, Haris Medunjanin, è arrivato in Olanda da bambino, come rifugiato, e con la maglia degli Orange ha vinto due titoli europei giovanili. Il portiere, Asmir Begovic, ha abbandonato la Bosnia a quattro anni e ha vissuto a lungo in Canada, a Edmonton. La punta Ibisevic, autore del gol della bandiera nell’esordio mondiale contro l’Argentina, ha iniziato a mostrare le proprie qualità negli Stati Uniti, a St. Louis. Il playmaker Misimovic è un serbo-bosniaco nato in Germania. Una delle poche eccezioni è Edin Dzeko, che ha trascorso il periodo della guerra civile in patria, lasciata solo a diciannove anni.  

La nazionale di calcio è forse l’unica istituzione multietnica funzionante nel Paese, anche se il ct Safet Susic, un passato da calciatore in Francia, rigetta il luogo comune secondo cui lo sport sarebbe la soluzione ai problemi politici. E se per Susic fare incetta di talenti nati e cresciuti all’estero è stata una necessità, per altri, come Jurgen Klinsmann, si è rivelata una precisa strategia.

L’ex centravanti dell’Inter, chiamato a prendere il posto di Bill Bradley e ad allestire una squadra competitiva per i mondiali brasiliani, è arrivato alla conclusione che, per elevare la qualità della rosa, dovesse scandagliare il pianeta alla ricerca di tutti i giocatori potenzialmente convocabili. Così Julian Green, cresciuto nell’accademia del Bayern Monaco, passaporto tedesco – come i colleghi di nazionale Guzan, Brooks, Chandler, Johnson e Jones –  dopo le insistenze di Klinsmann ha scelto di indossare la maglia degli Stati Uniti, come il norvegese Mix Diskerud e l’islandese Aron Johannsonn. Ben sei calciatori della spedizione americana hanno giocato in passato con altri Paesi, a livello giovanile. Il commissario tecnico, invece, non ha tenuto in grande considerazione Steven Beitashour, iraniano nato a San Jose, figlio di un ingegnere della Apple: convocato dagli Usa, non è mai sceso in campo e alla fine ha optato per la nazionale degli ayatollah.
 

Fino al 2009 c’era un limite di età ai cambi di maglia. Poi questo tetto venne tolto, su proposta di Mohammed Raouraoua, presidente della federazione algerina e membro dell’esecutivo FIFA. Un interesse non casuale, tanto che in Brasile è proprio l’Algeria ad avere il maggior numero di calciatori nati all’estero (o, meglio, nell’ex madrepatria francese), 17 su 23, metà dei quali ha giocato in passato con i Bleus a livello giovanile. Il movimento sull’asse Parigi-Algeri, peraltro, è bi-direzionale. Non solo algerini col passaporto francese, ma francesi di origini algerine: Samir Nasri, Karim Benzema e, in passato, un certo Zinedine Zidane, nato a Marsiglia da una famiglia berbera. La squadra di Deschamps, per via del retaggio coloniale, ha parecchi giocatori con la doppia nazionalità. Ci sono quelli nati in Francia da genitori emigrati. C’è chi ha vissuto l’infanzia in Africa, come Patrice Evra, a Dakar. E poi c’è la storia unica di Rio Mavuba. Il padre giocò con lo Zaire ai mondiali del 1974 in Germania. La madre, angolana, lo concepì sulla nave con cui aveva deciso di lasciarsi alle spalle la guerra civile che stava dilaniando Luanda.

Altri esempi? La Svizzera è un inno al cosmopolitismo. Il centrocampista del Napoli, Valom Behrami, e le due stelle emergenti, Shaqiri e Xhaka, hanno origini kosovare. Il centrale difensivo Djourou è nato in Costa d’Avorio, l’ex udinese Fernandes a Capo Verde. Rodriguez e Senderos hanno sangue ispanico, Mehmeti e Dzemaili sono cresciuti in Macedonia, da famiglie albanesi, le punte Gavranovic e Seferovic in Bosnia, l’altro “napoletano” Inler è di origine turca. Negli ultimi sette anni sette calciatori dell’Irlanda del Nord sono passati all’Eire, non una potenza del football, ma neppure una cenerentola: più facile poter disputare la fase finale di un Mondiale o di un Europeo, dal momento che a Belfast hanno potuto tifare la loro squadra in una sola competizione ufficiale, i Mondiali svedesi del 1958.

Per farsi un’idea, in questa edizione della Coppa del mondo sono soltanto sei le nazionali prodotte interamente in casa: Brasile, Corea del Sud, Colombia, Ecuador, Honduras e Russia. Altrove c’è sempre qualcuno che si è posto un dilemma. Ius sanguinis o ius soli? La patria d’adozione, il Paese di nascita, o quello dei propri genitori? Ci sono casi in cui le scelte hanno diviso trasversalmente una stessa famiglia. Jerome Boateng e il fratello Kevin Prince sono nati a Berlino Ovest da padre ghanese. Il primo ha scelto i colori tedeschi, l’altro ha optato per le Black Stars. In Sudafrica si ritrovarono da avversari. Quattro anni dopo, una mano invisibile è tornata all’opera: Germania e Ghana sono nello stesso girone. 

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