Com’è diversa l’Italia dalla sua Nazionale

Com’è diversa l’Italia dalla sua Nazionale

Washington. Birra Peroni per tutti: i tifosi dell’Inghilterra al pub Queen Vic in H Street, si sono consolati così. Il gestore del locale aveva fatto un patto e una scommessa con il suo collega di Vendetta, bar italiano a un isolato di distanza: se avessero vinto i bianchi sarebbero stati gli italiani a bere birra inglese, Newcastle Brown Ale esattamente. Il fatto che la Peroni appartenga ormai al colosso anglo-sudafricano Miller è un segno dei tempi, ma il marchio resta italiano, anzi romano; del resto la Newcastle è della tedesca Heineken. 

Anche i locali del Potomac Waterfront traboccavano di avventori come tutti i sabato pomeriggio di bel tempo, ma questa volta, cocktail in mano, stavano tutti in piedi davanti ai maxi schermi, pronti all’applauso scoppiato fragoroso al gol di Mario Balotelli, presentato dal canale sportivo Espn con tanto di intervista (senza traduzione) e analisi su calcio e razzismo. Intanto, l’asso olandese Ruud van Nistelrooij e il centrocampista tedesco Michael Ballack traboccavano di complimenti sulla grande organizzazione, la strategia razionale, il controllo del campo, la difesa collettiva, le ali rapide ed efficaci; oltre, naturalmente, al talento di Pirlo e di Supermario. Altro che Germania. 

Eccitazione di un tardo pomeriggio americano. Presto per tirare conclusioni calcistiche. Figuriamoci per avventurarsi in similitudini tra l’Italia di Prandelli e quella di Renzi o in metafore socio-politiche. Perché quando si scende dal cielo dello spettacolo alla realtà, le cose cambiano e molto. Negli Stati Uniti che non hanno mai considerato l’Italia e gli italiani di serie B e che, anzi, negli ultimi anni hanno fatto parecchio per dare una mano contro il rigorismo teutonico, la percezione del paese resta sospesa a un wait and see. Lo ha capito bene il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nel suo recente giro delle sette chiese americane. 

Prendiamo gli investimenti esteri: anche se sono in aumento non riescono ad invertire un trend in netta discesa. E poi di che investimenti si tratta? E’ vero che pecunia non olet, ma anche i quattrini vanno pesati non solo contati. Una cosa sono i fondi che acquistano azioni oggi sottovalutate per venderle non appena si saranno riprese, oppure i gruppi stranieri che assorbono marchi di eccellenza lasciati nella polvere da padroni avventati o imprenditori assenteisti. Nemmeno gli interventi di arabi e russi in cerca di sbocco per l’eccesso di liquidità gli uni e di legittimazione gli altri, rappresentano una leva per lo sviluppo. Ben diverso valore hanno le imprese multinazionali che aprono fabbriche e assumono lavoratori. McDonald’s, Ikea e Whirlpool possono fare da battistrada, ma restano ancora eccezioni.

L’Italia, come si sa, lo ripetono tutti gli interlocutori americani, è legata da mille lacci e laccioli, anche se non sono certo nuovi. La burocrazia, la lentezza del sistema giuridico, la corruzione, l’invadenza della politica, la rigidità del mercato del lavoro, gli alti salari (oggi un po’ meno di un tempo), il potere dei sindacati, il popolo del no e le proteste di piazza: tutto questo e tant’altro c’era anche quando i capitali a stelle e strisce affluivano copiosi. C’erano negli anni ’80 quando la borsa italiana correva insieme a Wall Street e il popolo dei Bot comprava azioni, c’erano nel 1992 quando sul Britannia le banche d’affari angloamericane discutevano cosa avrebbe venduto il governo Amato e dove conveniva loro intervenire. Dunque, la retorica ripetuta nei media e rimbalzata dalle giaculatorie dei politici, ha un fondamento di verità, ma non si sottrae alla prova del tempo: perché allora sì e oggi no? 

La risposta che si sente dire più di frequente è perché oggi l’Italia ha un problema di solvibilità non risolto dalle politiche economiche rigorose, anzi è stato aggravato dall’eccesso di austerità che ha compresso la crescita e aumentato il fossato tra il prodotto potenziale e quello effettivo, riducendo la capacità industriale del paese. In altri termini, l’Italia ha un debito pubblico non solo eccessivo (e questo era vero anche vent’anni fa), ma che continua a salire e ha compiuto un balzo dal 2011, cioè proprio quando sono state messe in opera le politiche che dovevano servire a ridurlo. La febbre sui mercati s’è abbassata, però la mancata crescita dell’economia italiana rende più complicato far fronte al pagamento degli interessi che si avviano alla bella cifra di cento miliardi annui.

Per questo Standard & Poor’s non ha migliorato il suo punteggio e ha mantenuto un rating di BBB con outlook negativo. In parole povere vuol dire che si assume un rischio molto elevato non solo chi investe in Btp, ma chi compra azioni delle banche italiane e delle assicurazioni zeppe di titoli pubblici o di imprese che hanno fame di capitali e per trovarli debbono garantire alti (e per loro costosi) rendimenti. Negli ultimi mesi il prezzo del rischio (cioè l’interesse) sui titoli pubblici si è ridimensionato grazie alla politica monetaria della Banca centrale europea. Tuttavia i fondamentali italiani non sono cambiati.

Nel 2011, l’annus horribilis, il debito è stato pari a 1.906 miliardi, adesso siamo a 2.146 miliardi. L’ultimo governo Berlusconi e poi con maggiore energia i governi Monti e Letta hanno varato stangate consistenti allo scopo di aumentare l’avanzo primario (cioè al netto degli interessi), battendo la via maestra indicata dalla Bce e dalla Unione europea per ridurre il debito, in vista del fatidico appuntamento con il fiscal compact l’anno prossimo. Ebbene, il risultato è esattamente opposto. Il debito è salito di 14 punti e cresce a ritmo di 19-20 miliardi al mese; quest’anno arriverà, se tutto va bene, al 134% del prodotto lordo. 

Crescita del costo del lavoro in termini reali necessaria per convergere con la Germania nei prossimi cinque anni

Perché questa eterogenesi dei fini? La ragione è che l’aggiustamento è avvenuto sostanzialmente con le tasse e ciò ha depresso i consumi, gli investimenti, la produzione, anche se la spesa pubblica nel suo complesso è rimasta sotto controllo. Il paradosso, dunque, si spiega con la recessione indotta dalla politica fiscale. Mentre fino ad allora, addirittura fin dall’Unità d’Italia, il debito è cresciuto in linea con il prodotto lordo (di meno negli anni virtuosi, di più in quelli peccaminosi dal 1986 in poi), le due curve parallele hanno cominciato a divergere nel 2011, il debito è salito mentre il pil è sceso. In realtà, la forbice si era già aperta con la grande crisi del 2008, tuttavia nel 2010 si era visto un leggero riavvicinamento, finché le stangate successive non hanno allargato il fossato. Gli americani che non hanno l’ossessione germanica per la stabilità, non sono spaventati dal debito in sé e per sé (anche se le vette italiane fanno girare la testa), ma dalla capacità di ripagarlo. Finché cresceva anche il pil questa possibilità restava intatta, persino quando il debito correva a una velocità maggiore. Ma adesso? Non solo. La bassa inflazione (se non vogliamo chiamarla ancora deflazione) peggiora lo scenario. 

Dinamica del debito in Italia e Spagna secondo diversi scenari inflazionistici

L’economista Domenico Lombardi ha calcolato per il Cigi Center for International Governance and Innovation da lui diretto, che con l’attuale dinamica dei prezzi, il debito resterà al 133% del pil ancora nel 2018. Dunque è essenziale per l’Italia che la Bce riporti l’inflazione verso il 2%. Anche questa, però, è una condizione necessaria, non sufficiente. Perché il sollievo sarebbe limitato e il debito rimarrebbe ancora a quota 115. Dunque, per raggiungere gli obiettivi del fiscal compact ci vorrebbe un vero boom: più crescita del prodotto e dei prezzi. Secondo le stime, il pil nominale dovrebbe salire di almeno tre punti l’anno, secondo Lombardi ce ne vogliono almeno quattro.

«Cosa sta facendo il governo Renzi per rilanciare gli investimenti? Ha in mente qualcosa per tagliare lo stock del debito? Ci sono all’orizzonte delle vere privatizzazioni?»: sono queste le domande che tutti gli interlocutori fanno, tanto più pressanti quanto più si tratta di persone che consigliano chi gestisce i risparmi degli americani. Per ora non c’è risposta. Magari chissà, se l’Italia vincesse la coppa del Mondo? Si dice che un successo agisce sulle aspettative, risveglia gli spiriti dormienti e porta un punto di pil in più. Ma è solo una battuta consolatoria di chi cerca sempre lo stellone, un fattore esterno, un miracolo, per risolvere problemi che richiedono, invece, il 10% di ispirazione e il 90% di sudore.

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