L’asse di ferro coi sindacati e la grande industria. La magistratura amica e l’establishment fiancheggiatore, fino all’ecologismo all’amatriciana e al nannimorettismo cachemire e velluto. La storia della sinistra italiana è un mosaico puntellato da segreti di Pulcinella, tabù da incorniciare, miti che si è preferito non sfatare, manovre di palazzo da non disturbare. Urla mediatiche che per anni sono rimaste afone di fronte a minoranze intoccabili ma in grado di negare alla sinistra affermazioni elettorali di ampio respiro. Un carrozzone a cui alternativamente hanno dettato la linea banchieri, pm, giornalisti, sindacalisti, scrittori e registi. Regalando le battaglie per la modernizzazione al centrodestra. Prima dell’exploit renziano alle ultime elezioni europee, l’ironia del destino voleva che nel Paese che ha avuto il più grande partito progressista d’Europa e il più grande sindacato dell’Occidente, il centrosinistra abbia spesso incassato vittorie di Pirro, attingendo sempre allo stesso bacino: dal 1976 il più grande partito della sinistra alla Camera in tutte le elezioni politiche ha sempre preso gli stessi voti, 12 milioni circa. «Un terzo dell’elettorato, una vocazione minoritaria inscritta nel Dna della sinistra che non riesce a parlare a elettori diversi dalla sinistra tradizionale». Che poi è quella delle regioni rosse, degli affezionati e non è un caso che il Pd sia il partito con il più alto tasso di fedeltà dell’elettorato: il 61% di chi lo ha votato nel 2013 lo aveva già fatto nel 2008. Poi è arrivato il boom del 2014 con la conferma di uno zoccolo duro democratico, i voti sottratti a Scelta Civica e, in seconda battuta, a M5s e Forza Italia.
Le catene della sinistra è il nuovo saggio di Claudio Cerasa, redattore capo del Foglio nonché penna tra le più attive sulle vicende che toccano la Rive Gauche italica e la scalata renziana al potere. Quello di Cerasa, edito da Rizzoli, è un racconto storico-giornalistico costellato di ricostruzioni, dettagli, nomi e numeri. Poche tesi e molti fatti a rappresentare i totem della conservazione che hanno appesantito la crescita di uno schieramento politico. Un lavoro arricchito da retroscena, aneddoti e colloqui con docenti universitari, dirigenti politici e imprenditori. Testimonianze e prese d’atto. È il manuale delle cattive maniere consolidate nel centrosinistra all’alba di quella che può essere la stagione della rinascita, a maggior ragione dopo il 40% incassato alle europee e dopo la debacle alle amministrative delle ex roccaforti rosse fino ad oggi in mano alla vecchia nomenklatura. «Questa – spiega Cerasa – è l’occasione storica per liberarsi dalle catene che la tengono ostaggio da anni per costruire dalle postazioni di governo il proprio profilo riformista». La volta buona affinché i progressisti si scrollino di dosso la paradossale etichetta di conservatori, cominciando con l’attirare tre tipologie di elettori per far uscire il Pd dallo status minoritario.
«Prima tipologia: gli elettori berlusconiani; da conquistare proponendo dal governo alcune di quelle riforme di buon senso suggerite negli ultimi anni da Berlusconi e osteggiate dalla sinistra solo perché suggerite da Berlusconi. Seconda tipologia: gli elettori grillini, facendo capire che il modo migliore per battere la vecchia politica è dimostrare che l’antipolitica si può battere con un po’ di rivoluzionaria buona politica. Terza tipologia, la più importante: quella che negli ultimi vent’anni ha osservato con sconforto il modo in cui il centrosinistra, accecato dalla politica dell’anti, ha sempre evitato di affrontare i veri problemi del paese, di fare uno sforzo per trovare una sua nuova identità e di rappresentare una nuova categoria di elettori italiani. Quelli cresciuti tra gli anni Ottanta e i Novanta, una generazione che non ha vissuto sulla sua pelle i grandi scontri ideologici ma in un clima di pacificazione. Che se pensa a Berlino non pensa al Muro e pensa più alla stralunata voce mondiale di Fabio Caressa che al violoncello di Rostropovich di fronte al Checkpoint Charlie».
La madre delle catene che tengono in ostaggio la sinistra è una. Il legame tra il centrosinistra e una parte della magistratura non ha solo radici lontane, ma un percorso di vasi comunicanti e convenienze reciproche con «politici che non resistono alla tentazione di delegare al magistrato il compito di combattere politicamente un avversario, giudici che non resistono alla tentazione di dare alle proprie indagini non solo un valore giuridico ma anche un valore etico e da un certo punto di vista un valore politico». Sarebbe facile buttare la palla in tribuna, relegando il problema a Berlusconi. In quello che è forse il miglior capitolo del libro, Cerasa parte da lontano passando in rassegna la genesi di Magistratura Democratica, la questione morale, Berlinguer, il giustizialismo, la bicamerale, la posizione “rivoluzionaria” di Napolitano e il meccanismo inquisitorio dell’opinione pubblica. Poi ci sono gli aggiustamenti agognati (e mai arrivati) per l’impalcatura della giustizia: «A forza di dire no a una riforma giusta solo perché era la persona sbagliata a proporla, la sinistra si è ritrovata a difendere l’esistente e a diventare, con la complicità dei pm, il simbolo non del progresso ma della conservazione». Discussione che oggi ritorna prepotente con l’emendamento per la responsabilità civile dei magistrati, circostanza che ha aperto l’ennesima faida al Nazareno tra chi vorrebbe derubricare l’evento a «incidente di percorso» e chi invece tra i democratici tifa per cambiare verso al rapporto tra Pd e magistratura. Tagliare le catene, insomma.
Antonio Ingroia (Filippo Monteforte/Afp/Getty Images)
D’altronde, spiega Cerasa, su un rapporto a lungo ondivago e ambiguo come quello tra progressisti e toghe piomba la legge del contrappasso: «La sinistra che oggi si lamenta per il metodo utilizzato dai campioni del circo mediatico-giudiziario è la stessa che quel corto circuito lo ha alimentato. Da un certo punto di vista Marco Travaglio sta a La Repubblica e L’Unità come Ingroia, De Magistris e Di Pietro stanno al Pd». Il groviglio poco armonioso di uomini e poteri lo traduce un ex magistrato come Luciano Violante: «Esiste un blocco populistico giudiziario mediatico che ha trasformato i magistrati in supereroi e che ha la tendenza a utilizzare la condanna mediatica come un surrogato della condanna vera per scopi puramente politici. Questo crea una grande enfatizzazione delle iniziative dei pm, ne determina spesso la popolarità al di là dei risultati ottenuti – guardate i casi Ingroia e De Magistrtis – succede che gli stessi pm diventano popolari grazie alle iniziative che assumono e non agli esiti di condanna cui pervengono».
Tra i cavalli di battaglia della sinistra resistono pure i cosiddetti ambientalisti all’amatriciana: campagne di statalismo e benecomunismo che sedimentano nella penisola generando blocchi ideologici a prova di bomba. Esemplare fu iI caso del referendum del 2011 sull’acqua con i dirigenti Pd che sospiravano: «Molti di noi vorrebbero votare sì ma saremo costretti a votare no, sennò lì fuori ci vengono a prendere». Cerasa parla di «grillizzazione delle piattaforme ambientaliste della sinistra» mentre l’ex deputata verde Rosa Filippini chiosa: «In Italia non esiste un vero partito ambientalista ma esiste un’egemonia del pensiero ambientalista, che attraversa tutti i partiti e che grazie alla predisposizione dei media italianI per la cultura catastrofista, ogni giorno trova ampio spazio sulle pagine dei grandi giornali». Il giornalista del Foglio cita il caso dei termovalorizzatori: De Magistris non vuole costruirli a Napoli, così spedisce ogni anno 300mila tonnellate di rifiuti in Olanda al costo di 36 milioni di euro. L’impianto che li smaltisce è un termovalorizzatore di Rotterdam che attraverso l’incenerimento dei rifiuti produce energia elettrica per la rete nazionale e vapore per le imprese. Dunque l’Italia paga e fornisce all’Olanda materia prima. Un esempio emblematico, ma ce ne sono molti altri.
Poi c’è il lavoro, una delle parole più abusate a sinistra. Mito e leggenda, idea e slogan, concreto e astratto. La sovrapposizione sinistra-sindacato ha fatto sì che tutti i segretari della Cgil dal dopoguerra transitassero da Corso d’Italia al mondo della politica, ultimo il Guglielmo Epifani segretario reggente del Pd post-Bersani. Non solo, l’abbraccio tra partiti e sindacato allontana una nuova fetta di lavoratori sempre più consistente: quella di giovani, precari e non garantiti. Allo stesso tempo il sindacato, mediaticamente percepito come difensore dello status quo davanti ai tentativi di riformare il mercato del lavoro, diventa «casta iperburocratizzata e autoreferenziale che ha perso via via contatto con il paese reale» e che, per usare le parole del giornalista dell’Espresso Stefano Livadiotti, «in nome di una concertazione degenerata in diritto di veto, pretende di avere l’ultima parola sempre e su ogni cosa».
Susanna Camusso e Pierluigi Bersani (Andreas Solaro/Afp/Getty Images)
Pensionati e lavoratori pubblici rappresentano il maggior bacino di tessere in mano ai sindacati, dunque anche al Pd. Osserva Ilvo Diamanti che alle elezioni politiche del 2013 «il M5s è arrivato primo tra i lavoratori autonomi (44%), primo fra gli operai (38%), fra i disoccupati (40%), liberi professionisti (32%), studenti (285), il Pd primo solo fra i pensionati (37,1%)». L’ex dirigente Cgil Michele Magno parla di «ammanettamento sinistra-sindacati», coi leader progressisti spesso costretti ad annacquare le proprie idee riformiste davanti ai sindacati, per anni forti di quel potere di veto all’interno di una concertazione che ha portato a un assetto neocorporativo. Intanto il mondo cambia: sono 18,5 milioni i lavoratori non tutelati dall’articolo 18, che tutela 5,8 milioni di persone nel privato e 3,2 nel pubblico. E Ichino attacca: «La difesa a oltranza dell’articolo 18 ha regalato al centrodestra anche su questo terreno la battaglia per la modernizzazione del paese e l’incapacità del centrosinistra nel rendersi indipendente al sindacato ha contribuito ad appesantire l’immagine della sinistra schiacciandola sempre di più verso una parte minoritaria del paese».
Allo stesso tempo la sinistra non ha mai perso di vista l’establishment. Da Confindustria alle banche, nasce negli anni una classe dirigente borderline: l’ex manager Eni Beniamino Andreatta, l’ex presidente Iri Romano Prodi, il banchiere Giovanni Bazoli. L’operazione Telecom, la mancata aggregazione Unicredit-Comit, l’ombra di D’Alema, la scalata di Unipol a Bnl. E l’universo delle fondazioni bancarie: dei 159 consiglieri che oggi fanno parte delle fondazioni più importanti, 71 sono politici e di questi 51 hanno una storia contigua col centrosinistra. E Renzi che fa? «Non ha tagliato affatto i ponti con il mondo dell’establishment, semplicemente sta cercando di forgiarne uno a sua immagine e somiglianza». Tra i “suoi” nomi in ascesa Diego Della Valle, Vittorio Colao e Andrea Guerra, mentre dietro le quinte l’amico fraterno e braccio destro Marco Carrai lavora per tenere i contatti diplomatici con banche e industrie, le stesse che hanno sospinto l’ascesa dell’ex sindaco al governo.
(Andreas Solaro Afp Getty Images)
Sensibile ai rapporti con Confindustria, di cui Cerasa documenta il fuggi fuggi di aziende inaugurato da Fiat, la sinistra si è sempre assicurata gli agganci giusti. Da Calearo a Galli, fino a Colaninno responsabile economia del Pd e Guidi ministro dello Sviluppo Economico. Un’attenzione maniacale al mantello dei grandi che fa il paio con troppe dimenticanze verso i piccoli, vera ossatura del tessuto imprenditoriale italiano. Annota Oscar Farinetti: «Il grande errore della sinistra è stato non capire che i piccoli imprenditori sono le fondamenta su cui costruire i grandi progetti del Paese e che per troppo tempo lo Stato ha trattato il piccolo imprenditore come se fosse una spugna da strizzare». Il banchiere Pietro Modiano incalza: «Il capitalismo italiano non è mai stato regolato dalla concorrenza e dal libero mercato e la sinistra non ha mai combattuto per questo. Per molto tempo il Pds prima, i Ds dopo e in buona parte il Pd hanno sempre avuto leader che si sono mossi con l’idea che fosse doveroso per un partito di sinistra andare di fronte al grande imprenditore e mostrargli la sua affidabilità quasi con l’atteggiamento di chi si deve far perdonare il suo passato operaista».
C’è spazio pure per il partito della cultura: «La sinistra ha ceduto parte della sua sovranità a un movimento composto da intellettuali, attori, scrittori, registi, poeti, giornalisti impegnati a promuovere raccolte firme necessarie a salvare l’umanità, tutti molto impegnati a dettare l’agenda al mondo progressista e a indicare il percorso corretto per essere riconosciuti come il simbolo di un’Italia giusta». In una parola il nannimorettismo. Truppe parapolitiche equipaggiate di cachemire, velluto, storiche avversioni alla tv commerciale prima e a Checco Zalone poi. Nel frattempo vanno in scena le occupazioni illegali ammantate di cultura, la pioggia di fondi pubblici al cinema, il doppiopesismo che lambisce il ministero dei Beni Culturali. Alla fine della fiera la sfida è capire «se Matteo Renzi riuscirà, come ha fatto Tony Blair a metà degli anni Novanta, a non lasciarsi trasformare dal suo partito, ma semplicemente a trasformare il suo partito. Rottamare il paradosso con cui si ritrovano a fare i conti i leader della sinistra italiana: quello di essere molto popolari a sinistra e drammaticamente poco popolari nel Paese». Cerasa sciorina una cronaca documentata in trecento pagine dense esperienze di cui far tesoro, errori da cui imparare, lutti da elaborare anche attraverso bagni di umiltà e realismo. Proprio lì a sinistra, dove per anni si è rinunciato a vincere e dove ora appare la luce della vocazione maggioritaria. Sarà la svolta buona?