Monsignor Jozef Wesolowski, l’ex nunzio vaticano nella Repubblica Dominicana, accusato di abusi sessuali commessi nell’isola caraibica e poi indagato anche nel suo Paese d’origine, la Polonia, è scomparso nel nulla. O meglio, secondo le informazioni ufficiali diffuse dalla Santa Sede, si troverebbe in Vaticano dall’estate scorsa, quando è stato richiamato a Roma, e per di più sarebbe sotto processo; ma in realtà nessuna notizia concreta — al di là di qualche affermazioni generica — è filtrata sul suo caso in questi mesi. Non c’è un’immagine dell’ex diplomatico, non è dato sapere dove vive o dove viene trattenuto, non si conosce lo stato dei processi in corso contro di lui Oltretevere.
Le ultime notizie su Wesolowski risalgono all’inizio di maggio, quando una delegazione vaticana è stata ascoltata e interrogata dal Comitato della convenzione Onu contro la tortura. In quell’occasione monsignor Silvano Tomasi, osservatore permanete della Santa Sede presso le Nazioni unite di Ginevra, ha precisato due questioni. Wesolowski, ha detto Tomasi, è sottoposto a un doppio processo in Vaticano: uno di carattere canonico presieduto dalla Congregazione per la dottrina della fede, e uno penale seguito invece dalle autorità di polizia e dalla magistratura vaticana. Tuttavia, ha precisato ancora l’arcivescovo, le cose vanno a rilento perché i documenti chiesti alla Repubblica Dominicana stentano ad arrivare. Nessuna spiegazione è stata invece data in merito alle richieste di informazioni avanzate nei mesi scorsi dalla giustizia polacca e rivolte al Vaticano.
I fatti di abuso — almeno cinque testimonianze sono state ritenute valide nel piccolo Paese caraibico — sono avvenuti nel periodo in cui Wesolowski è stato nunzio nella Repubblica Dominicana (dal 2008 al 2013), e tuttavia insieme al suo caso ne emersero altri sempre relativi a sacerdoti di origine polacca di stanza nell’isola. Nel frattempo, in un concatenarsi di eventi incalzante, anche in Polonia scoppiava lo scandalo degli abusi sui minori da parte del clero, di conseguenza venivano aperti procedimenti giudiziari che toccavano, fra gli altri, i casi emersi nella Repubblica Dominicana. Così, dall’Europa dell’Est al mar dei Caraibi, cominciava un importante passaggio di informazioni e di carte, mentre il passo successivo della giustizia polacca era quello di rivolgersi alle autorità vaticane per sapere se Wesolowski fosse coperto o meno dall’immunità diplomatica e se fosse praticabile l’ipotesi di una richiesta di estradizione.
Secondo quanto hanno riferito nel gennaio scorso le fonti polacche, da Roma sarebbe arrivata una risposta formale nella quale si precisava che l’ex nunzio era cittadino vaticano — in quanto diplomatico — e dunque non era estradabile poiché non esistevano accordi in questo senso fra i due Paesi. A quel punto interveniva anche il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, il quale precisava come nessuna richiesta ufficiale di estradizione fosse giunta in Vaticano dalla Procura di Varsavia (il che tecnicamente era vero) ma solo una domanda circa lo status diplomatico dell’ex nunzio (che però preparava il campo all’estradizione). Infine Lombardi spiegava che la competenza penale sul caso Wesolowski era anche del Vaticano in quanto l’ex nunzio era, appunto, cittadino dello Stato del papa.
Sul filo dei rapporti internazionali dunque, la Santa Sede ha giocato una partita delicata e pericolosa: quella per processare in proprio il diplomatico polacco cresciuto alla scuola di Wojtyla. Si tratta del secondo clamoroso caso di processo penale interno alla Santa Sede dopo quello dell’ex maggiordomo infedele Paolo Gabriele, il trafugatore di documenti dall’appartamento di Benedetto XVI condannato e poi graziato dal pontefice tedesco.
Tuttavia la scelta del procedimento interno contraddice almeno in parte l’impostazione data dalla Santa Sede in questi anni alla vicenda abusi in almeno due punti. In primo luogo è evidente che Wesolowski non è stato consegnato alla giustizia civile come invece richiedono le nuove norme della Congregazione per la dottrina della fede in casi conclamati di pedofilia. In secondo luogo è stato ammesso un principio importante per la prima volta: ovvero il fatto che Wesolowski, presumibilmente anche cittadino polacco, è un dipendente vaticano a pieno titolo. Mentre fino ad ora la Santa Sede, in particolare negli States, si è sempre rifiutata di comparire come responsabile nei processi contro sacerdoti e vescovi accusati di pedofilia in quanto, hanno sostenuto gli avvocati del Vaticano,gli accusati non potevano essere considerati alla stregua di “dipendenti” del papa ma erano a tutti gli effetti cittadini di quel Paese operanti nella Chiesa americana e dipendenti tutt’al più dal loro vescovo. Ora – sia pure con l’eccezione del diplomatico – tale principio sembra incrinarsi.
E però, in questa sottile partita diplomatica, un colpo lo ha piazzato anche l’Onu lo scorso 23 maggio quando ha reso noto il rapporto finale sulla Santa Sede relativo all’applicazione della Convezione contro la tortura. Un paragrafo dal significativo titolo “Impunità” era dedicato appunto all’arcivescovo Wesolowski. Se da un parte si apprezzavano i procedimenti in corso contro l’ex nunzio, dall’altro si criticava severamente la mancata estradizione del diplomatico e comunque si invitava il Vaticano a fornire tutte le informazioni sul caso Wesolowski alla Polonia in quanto Stato aderente alla Convezione contro la tortura come la Santa Sede. In poche parole il comitato di Ginevra “aggirava” il problema del rapporto fra i due Stati collocandolo all’interno delle relazioni dovute fra nazioni che condividono gli stessi ordinamenti delle Nazioni unite.
Restano molti dubbi sul caso Wesolowski, il diplomatico polacco di 66 anni che frequentava i sobborghi di Santo Domingo dove adescava ragazzini o comprava le loro prestazioni sessuali. Cosa nasconde la lunga vicenda di questo nunzio che ha percorso le ambasciate vaticane di mezzo mondo? Perché la Santa Sede si rifiuta di dare informazioni dettagliate sul suo caso? Domande che attendono risposte nella stagione della trasparenza inaugurata da papa Francesco.