Il patto di Draghi con le banche italiane

Il patto di Draghi con le banche italiane

LONDRA – «Semplici e trasparenti». Sono questi i due requisiti richiesti da Mario Draghi affinché la Banca centrale europea possa acquistare le cartolarizzazioni utilizzate finora dalle banche come collaterale a garanzia dei finanziamenti concessi da Eurotower. «L’Eurosistema considererà l’acquisto di Abs semplici e trasparenti aventi come sottostante asset legati al settore privato non finanziario europeo», si legge nel discorso pronunciato da Draghi giovedì scorso. Molti, come Antonio Guglielmi, decano degli analisti di Mediobanca, hanno letto nella frase pronunciata dall’ex governatore di Bankitalia – «non abbiamo ancora finito» – un diretto riferimento alle misure non convenzionali riguardanti le Abs.

Le Asset backed securities (Abs) sono obbligazioni con sottostante portafogli di prestiti, mutui o altri asset. Impacchettati come delle salsicce in diverse tranche che offrono un rendimento diverso parametrato al differente grado di rischiosità, e venduti agli investitori istituzionali con appiccicato un rating spesso troppo ottimista, le Abs legate ai mutui subprime americani, e soprattutto i derivati venduti per proteggere gli investitori dal loro rischio di default, sono stati la miccia che ha fatto esplodere il bilancio di Lehman Brothers.

Eppure, sostengono Mario Draghi e il governatore della Bank of England, Mark Carney, le Abs possono essere la pietra filosofale per far ripartire il meccanismo di trasmissione della politica monetaria dell’Eurozona, evitando il protrarsi della deflazione. Se, come dimostra questo grafico della Federal Reserve di Saint Louis, in America nel 2008 i debiti derivanti da questo tipo di emissioni avevano raggiunto i 4.500 miliardi di dollari. Allo scorso marzo, la cifra è scesa a 1.500 miliardi.

In Europa, secondo un recente paper pubblicato dalla Bce e dalla Bank of England, l’ammontare complessivo delle Abs è di 1.500 miliardi di euro, in discesa di 750 milioni, quindi un terzo, rispetto al picco del 2009. Le obbligazioni con sottostante portafogli di mutui immobiliari la fanno da padrone con il 58% del mercato, mentre quelle legate ai portafogli di prestiti alle Pmi soltanto l’8 per cento. Ed è proprio qui che Draghi vuole intervenire, forte del fatto che, come evidenzia uno studio dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, dal luglio 2007 al terzo trimestre del 2013 il tasso di fallimento delle emissioni strutturate sia stato pari soltanto all’1,5%, rispetto al 18,4% degli Stati Uniti. Numeri che rassicurano Francoforte.

Le ricadute sull’Italia potrebbero essere positive, considerando che, sempre per Eurotower, il nostro Paese è la quarta giurisdizione in Europa per ampiezza del mercato, con 77 miliardi di euro. Prima di noi soltanto Inghilterrra, Olanda e Spagna. Lato banche, strutturare e vendere alla Bce portafogli di mutui o prestiti alle Pmi consente di liberare capitale prezioso per far ripartire la dinamica credito. Lato Bce, di raccogliere dati preziosi su transazioni che spesso avvengono “over the counter”, cioè in mercati non regolamentati e attraverso gli Spv (Special purpose vehicles), veicoli fuori dal bilancio degli istituti di credito. Guardando ai conti consolidati 2013, ad esempio, le cartolarizzazioni fuori bilancio di Intesa Sanpaolo ammontano a 5 miliardi di euro, quelle di Unicredit a 1,3 miliardi.

Sebbene gli sforzi della Bce e della Banca europea per gli investimenti per creare una piattaforma informativa comune abbiano convinto l’Eurosistema ad abbassare dal 16 al 10% il taglio al valore nominale delle Abs accolte da Eurotower a garanzia dei prestiti concessi agli istituti di credito – per i bond con rating che va da AAA ad A-, per quelli da BBB a BBB- l’haircut è del 22%, rispetto al 25% imposto da Basilea III alle banche – la rischiosità del mercato dipende molto da Paese a Paese.

Moody’s, ad esempio ha stimato un aumento del tasso di insolvenza nel periodo che va dai 90 ai 360 giorni dall’emissione della cartolarizzazione legata a prestiti alle Pmi nella regione Emea dal 2,13% del 2011 al 4,91% del dicembre 2013. L’Italia, da questa prospettiva, è il Paese con il più alto tasso d’insolvenza sul lungo termine, che sale al 9% nei quattro anni successivi al closing della transazione.

È il problema dei crediti deteriorati (Npl, non performing loans). L’ultimo bollettino dell’Abi, l’associazione bancaria italiana, evidenzia come le sofferenze lorde, i crediti cioè non più recuperabili, sono saliti a 162 miliardi a febbraio 2014, con un rapporto sugli impieghi «dell’8,5% a febbraio 2014 (6,5% un anno prima; 2,8% a fine 2007), valore che raggiunge il 14,4% per i piccoli operatori economici (12,1% a febbraio 2013; 7,1% a fine 2007), il 13,7% per le imprese (9,9% un anno prima: 3,6% a fine 2007)». Tradotto, significa che un’impresa su sei non ce la fa a rientrare dai finanziamenti concessi dalla banca. Allo stesso tempo, scendono ancora dell’1,9% annuo i prestiti concessi alle Pmi dagli istituti di credito. 

Tuttavia, registra l’Abi, «Se si considerano le sofferenze nette, si registra una riduzione dai 79,2 miliardi di euro di gennaio ai 78,2 miliardi di febbraio, a seguito di operazioni di cessione di prestiti in sofferenza». Non a caso molti fondi internazionali, da Fortress ad HIG, stanno aprendo uffici in Italia per approfittare dei rendimenti forniti dai pacchetti di Npl ceduti o cartolarizzati. Il patto di Draghi con le banche italiane sta tutto qui. Un patto che può diventare un raggio di sole per l’economia reale di un Paese, l’Italia, dove il tasso di disoccupazione allo scorso aprile è salito al 12,6 per cento. Un balzo del 4,5% rispetto ad aprile 2013.

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