Il senso di Jonathan Lethem per la sinistra

Il senso di Jonathan Lethem per la sinistra

Ci sono libri che andrebbero semplicemente letti, non analizzati. Così completi e rotondi, nei quali ogni frase spiega se stessa e se non lo fa, lo farà la successiva. Con quei capitoli chiusi, impossibili da integrare, impossibili da immaginare fuori dal romanzo e lontani dalla voce del loro autore. Ci sono libri che hanno dentro interi universi. Non l’immaginario di un singolo, ma la capacità di prendere quello che passa fuori dalla testa dello scrittore e metterlo in pagina, ogni volta in maniera accurata, ogni riga impregnata di una convinzione che va oltre la documentazione per entrare nel culto, nella religiosità, nell’ideologia. Ci sono sono scrittori che nella loro vita non avrebbero potuto fare altro — anche se in realtà hanno studiato da pittori — e che guardandoli si ha la sensazione di vedere un animale nel proprio elemento naturale. Sicuro, pacato, silenzioso come soltanto chi ha la certezza di non doversi più preoccupare di niente.

Ci sono anche interviste che non ci sarebbe bisogno di commentare, che basterebbe aprire il microfono e mettere in pagina la voce dell’intervistato. Perché si spiega da sé, perché chi sono io per aggiungere qualcosa? In questa ci sono la scrittura e la politica, così, come vengono.

La scrittura

Jonathan Lethem ha scritto parecchi racconti e una decina di romanzi, il primo pubblicato nel ’94 (Concerto per archi e canguro, Tropea), l’ultimo (I giardini dei dissidenti, Bompiani) nel 2014. Sono cose che, se lo chiedete a me, chiunque dovrebbe leggere. Chiunque abbia anche solo un vago interesse nel capire di cosa si parla, quando si dice “letteratura americana”. Lethem è lo scrittore americano, l’ultimo di una gloriosa stirpe. Quel genere di scrittore che quando apre un periodo è come se scostasse un sipario di velluto pesante con un gesto plateale del braccio, dimostrando molta meno fatica di quella che ci mette e cedendo al pubblico un’infinità di subordinate intricate a formare quello che alla fine lui chiamerà “romanzo”.

«Ci sono due motivi per cui non riesco a considerarmi uno scrittore americano: il primo è che quando ho incominciato a scrivere, portavo con me un enorme bagaglio di letture che ho assunto con devozione cattolica, e la letteratura mi ha avvicinato a Kafka, Lewis Carrol, Calvino, Kobo Abe, Cortázar . È sempre stata una questione globale, universale se vogliamo. Il secondo è che da scrittore newyorchese mi sono sempre sentito qualcos’altro, anche se scrivevo di altro, di cose che stanno fuori da New York. I miei primi romanzi sono ambientati a ovest. Non soltanto a ovest dello Hudson, ma proprio nel West. All’inizio pensavo che non fosse il mito della frontiera ad attirarmi in quella direzione, ma Kerouac, la Beat, il viaggiare sconsiderato. Poi mi sono reso conto che è la stessa cosa. Che fa tutto parte dell’immaginario americano della terra promessa, della reinvenzione di sé stessi, delle terre selvagge. Quindi forse lo sono, uno scrittore americano, forse è quello che il destino ha voluto per me».

Ho intenzione di scrivere il grande romanzo di Brooklyn. Anzi meglio, il grande romanzo di Dean Street

Chi conosce minimamente New York sa che è difficile crescerci e non metterla in qualsiasi cosa si faccia, è difficile estirparne l’immaginario, aggrappato come una gramigna ai cunicoli cerebrali, e trasferirlo altrove. Lethem, da un certo punto in poi — da Brooklyn senza madre (Tropea, 1999 poi Il Saggiatore, 2008) a quel miracolo che è La fortezza della solitudine (Tropea, 2003 poi Il Saggiatore 2008) ha scritto di Brooklyn. «A chi mi chiede se ho intenzione di scrivere il grande romanzo newyorchese rispondo che no, ho intenzione di scrivere il grande romanzo di Brooklyn. Anzi meglio, il grande romanzo di Dean Street. Meglio ancora, il grande romanzo di Dean Street tra Bond e Neville. Quando ho finito di scrivere La fortezza della solitudine, che avevo da qualche parte nel cervello da una decina d’anni, dopo seicento pagine a parlare di quello che conoscevo meglio al mondo, sono sceso in strada e mi sono reso conto di non averlo colto per niente. Dovrei riscriverla, e poi riscriverla ancora, e poi ancora. Dovrei passare tutta la vita a scrivere lo stesso romanzo per cogliere veramente l’essenza di quello che vorrei raccontare. Ho cominciato a scrivere di Brooklyn dopo qualche anno dal mio primo libro, ed è stato come aprire un rubinetto. Avevo tutto lì, non dovevo fare altro che farlo uscire. Una sensazione liberatoria, un’urgenza fisica tanto facile da assecondare quanto difficile da soddisfare completamente. Ogni marciapiede, ogni angolo, ogni slargo del quartiere dove sono cresciuto, mi trasferiscono una tale carica emotiva che non credo che mi rimanga abbastanza vita per esaurire la vena».

Da Concerto per archi e canguro a I giardini dei dissidenti, leggere Lethem è come seguire una pista indiana che attraversa i paesaggi di un continente, dall’Alaska ai deserti dell’Ovest, dalla metropoli livida di Chronic City (Il Saggiatore, 2010) alla Coney Island desaturata di Ragazza con paesaggio (Tropea, 1998). C’è il senso di unicità di una nazione costruita sull’infinita complessità del tutto che la compone. C’è una scrittura che si adatta alla forma, e un immaginario che ogni volta ha una voce diversa, disegnato attorno ai personaggi, più che alle situazioni. «Il tema sceglie il linguaggio. Vivo da sempre con il terrore di ripetermi, di essere quel genere di scrittore che scrive un romanzo di detective e passa il resto della sua carriera aggrappato alla stessa storia. So che per i lettori può diventare qualcosa di snervante, questa complessità, questa necessità di mettere nei libri ogni particolare di quello che ho in mente, cambiando il registro a seconda dell’argomento in maniera quasi sistematica, ma è il modo che ho trovato di usare tutti gli strumenti che ho e di assecondare la mia necessità di provare sempre nuovi modi di esprimere la mia vocazione. I miei personaggi sono me stesso fino a un certo punto, poi diventano le persone che ho intorno, poi ancora le persone che ho incrociato nella vita e che sento sempre di più il bisogno di far vivere, anche se per poco, nei miei libri. Prendo quello che viene da fuori, e lo porto dentro. Non c’è altra maniera». È come guardare una gigantografia da pochi centimetri di distanza, si ha la sensazione di avere di fronte qualcosa di enorme, pur cogliendone un solo particolare alla volta. E quando tutto è detto, quando spanna per spanna abbiamo percorso tutta la superficie dell’immagine, finalmente Lethem ci prende e ci porta abbastanza lontani da vederla tutta assieme.

Con I giardini dei dissidenti, raggiunge una maturità che va oltre la forma. Cambia di nuovo le carte in tavola e lascia le redini dell’ideologia per raccontare una storia politica, in un libro carico di sentimento e familiarità. «La mia scrittura è sempre stata politica. In Amnesia Moon ( minimum fax, 1995) ho cercato di dare la mia visione della politica americana, e l’ho fatto coscientemente. In Chronic City ho dipinto quello che io considero un manifesto anti-capitalista. I giardini non è un libro politico, in quel senso, non è una cosa che potresti innalzare come uno stendardo da seguire perché finiresti per girare in tondo. Per anni gli scrittori americani — e anche io — hanno scritto dell’innocenza politica americana, dell’ingenuità, della capacità che abbiamo di vivere al di fuori della politica. Quasi tutti i miei personaggi hanno sempre vissuto questa condizione, questo non essere personaggi politici. I protagonisti dei Giardini sono l’esatto contrario: vivono le loro vite a un livello ridicolo di coinvolgimento nella storia politica americana. Sono prodotti dalla storia e ne sono responsabili, sono agenti unici, implicati e alla fine distrutti. Come se il destino poggiasse unicamente sulle loro spalle. Per la prima volta scrivo di personaggi non solo coscienti della loro posizione politica, ma estremamente responsabili. E per la prima volta non c’è un credo, non c’è un’ideologia che vada al di fuori di quella che trasporta i miei protagonisti, in maniera impossibile da arginare».

La politica

Nei Giardini dei dissidenti ci sono settant’anni di politica americana. Non di una politica qualunque ma di quella che negli Stati Uniti resta sempre fuori dalle grosse correnti, appena a sinistra dell’accettabile. Tra il mito dei commie, e il terrore dell’anti-patriottismo filo terroristico. In diverse forme, ma fatto della stessa sostanza: incolore e inodore, solo leggermente virata al rosso ma abbastanza diplomatica da dirsi blu, che vive e si incrosta sull’asta della bandiera e ci fa pensare, tutti i giorni, che la sinistra non esista più. «Sono felice di definirmi un uomo di sinistra e sono felice di aver scritto un libro che parli della sinistra, perché mi ha aiutato a capire quanto intimamente fossi legato a questa ideologia. È un sentimento fisico che si scontra con la sensazione di essere effettivamente al di fuori della società, di essere l’eterno perdente in una nazione che non ha mai ammesso nessun tipo di posizione sinceramente radicale. Ogni volta che ho cercato di fare un passo più a sinistra mi sono sentito come se stessi prendendo una posizione compromettente, nella condizione di dover temperare i miei istinti. Ho messo su pagina questo sentimento, questa necessità di cambiamento che mi ha portato negli anni, come da tradizione, a partecipare alla politica in modo, comunque, inefficiente». Lethem parla di una sinistra ideologica, che si rigira nel cul de sac del Partito democratico senza mai trovare la propria collocazione. Qualche giorno prima del nostro incontro, aveva parlato di cosa succede nel mondo politico con Pippo Civati ,a Firenze — «È una chiacchierata che avrei voluto fare in un bar, con un bicchiere di vino», mi ha detto — e così mi è venuto ancora più spontaneo chiedergli se, in uno scenario così diluito, crede ancora nell’esistenza della sinistra. Di una sinistra.

Sono felice di definirmi un uomo di sinistra e sono felice di aver scritto un libro che parli della sinistra

«È il senso del libro. La cocciuta perseveranza di chi va avanti sconfitta dopo sconfitta, con un’ideologia ben piantata in testa e la volontà di portarla fino in fondo così com’è nata. Accettando solo pochi compromessi fondamentali e senza badare troppo ai fuochi incrociati di chi la vorrebbe fuori dai palazzi. Il profondo desiderio di rinascita, di vittoria, la fiducia costante e inintaccabile in un mondo migliore, che esiste dagli albori dei partiti con diversi nomi per epoche diverse, ma sempre distante dagli altri. E non intendo gli altri fascisti, ma gli altri democratici. Una sinistra che sta sotto la superficie ed è visibile per chi la vuole vedere, che è stata imbarazzante, addirittura dannosa per se stessa, ma che esiste, contro i suoi stessi insuccessi e le sue paure, esiste. Ed esisterà sempre». Il rischio, in uno scenario del genere, è incappare nei populismi, ultimamente arroccati negli angoli estremi degli schieramenti, per così dire, accettabili. «Il populismo non è una posizione politica, ma un’energia. È un’idea che ho trovato da qualche parte, ma che mi sembra abbastanza azzeccata, per cui l’ho fatta mia. C’è un populismo di sinistra e uno di destra, perché questa energia può essere usata in diversi modi, può sostenere una fazione e affossarne un’altra. È un’energia cruda, brutale, schietta, ma non ha un’ideologia politica, non è giusta né sbagliata, è solo lì. A disposizione».

George McGovern, a destra, il più a sinistra di sempre tra i candidati democratici (Anthony Korody / Hulton Archive)

Però è una posizione abbastanza forte da minare le fondamenta del sistema, da sporcare le primarie e far temere a tutti una rivalsa delle posizioni più estremiste. Il calo verticale dei consensi che il presidente Obama sta subendo nelle ultime settimane è in parte da attribuire alla rivalsa dei movimenti populisti. «Tradizionalmente un presidente è finito a due anni dalla fine del suo mandato. La domanda è: cosa ha fatto (o non ha fatto) Obama? Ci sono cose che la gente si aspettava da lui ma che lui non aveva mai effettivamente promesso, e ora che i giochi sono fatti, che il suo tempo sta finendo, la gente gli chiede il conto per cose che si è inventata. Poi ci sono cose che avrebbe potuto effettivamente fare, ma che non ha fatto. È invitante pensare a queste figure politiche, che incarnano un senso di salvezza, che sembrano poter cambiare le sorti di una nazione da sole perché — sicuramente — rappresentano un punto di svolta, ma non bisogna dimenticarsi che vengono messe a capo di un sistema che già esiste e che loro non possono, di fatto, controllare. Obama è un servo di strutture non elette che controllano la politica, strutture militari, bancarie, grandi imprese. Avrei sperato che fosse abbastanza coraggioso e convinto delle proprie posizioni da sovvertire questo sistema? Certo. Ma non è una cosa che si può effettivamente chiedere al presidente. Il fatto di preferire lui all’alternativa, all’epoca dell’elezione, è un esercizio di pura dialettica, perché ci sono contemporaneamente tutte le sacrosante ragioni per volere lui al posto di George W. Bush, ma anche tutte le ragioni per essere delusi dal suo operato». La cosa veramente preoccupante è che non sembra esserci, al momento, alternativa. «Hillary è nata dentro queste dinamiche, ci ha vissuto per tutta la vita. Sarebbe un altra bella storia da raccontare, ma non sarebbe politicamente efficace. Forse un po’ di economia populista non farebbe del tutto male a un’amministrazione democratica. Allevierebbe un po’ le disparità e risolverebbe il problema dei salari minimi, e magari è l’unica cosa in cui si può sperare. È difficile, ma non impossibile». E allora mi è venuto in mente George McGovern, la grande illusione della campagna del ’72 e come le cose, per certe persone con certe idee, prendono sempre una piega inaspettata. Jonathan Lethem sorride, «è la cosa più di sinistra che sia mai successa ai democrat. Portiamola con orgoglio».

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