Stranamente si parla poco di questa piccola grande querelle, la storia della causa che oppone la curia di Rio de Janeiro alla Rai per colpa del Cristo redentore. O meglio: per il fatto che l’arcivescovo di Rio de Janeiro, o i suoi uffici (il che non fa differenza) abbiano fatto causa alla Rai chiedendo il modico risarcimento di sette milioni di euro per via dello spot sui mondiali con cui l’azienda di viale Mazzini ha messo la maglia azzurra della nazionale a una delle statue più famose del mondo, il simbolo stesso dell’identità nazionale.
Ora: è vero che di questi tempi, alla chiesa di Papa Francesco io sarei tentato di cedere per qualunque richiesta, è vero che se quei soldi arrivassero, forse, andrebbero almeno in parte in opere di bene: eppure, malgrado queste attenuanti bisogna avere il coraggio di dire che la causa, in linea di principio, non sta davvero in piedi. Se è vero che questi mondiali sono quelli della passione contro il mercato, quello dei movimenti contro la megamacchina del grande evento, se è vero che sono la ribalta della grande protesta “no logo” contro il circo dei campioni griffati, la mossa della curia è davvero un passo falso, perché colloca la Chiesa brasiliana dalla parte sbagliata. «Sarebbe come se voi italiani inseriste delle ballerine brasiliane nel Colosseo», hanno detto gli avvocati per giustificare l’azione legale.
Adesso: a parte che non ci sarebbe nulla di male, credo, nel collocare qualche ballerina di samba in mezzo ai gladiatori e ai centurioni finti che tutto il mondo (non) ci invidia, mi sembra che la causa annunciata dalla curia vada in una direzione del tutto opposta a quella che era nelle intenzioni dei suoi promotori. E che — in qualche modo — questa polemica anti Rai racconti lo scenario di un mondo terribile in cui tutto può diventare marketing, persino il paesaggio.
Pensate cosa accadrebbe a parti rovesciate se Rete Globo girasse uno spot al Pincio e dovesse pagare un milione di euro al Comune per la skyline del Campidoglio, uno al Vaticano per San Pietro e uno a Napolitano per la bandierina e la torretta del Quirinale, pensate che orrore se la Grande Bellezza della Capitale immortalata da Paolo Sorrentino si trasformasse in un listino di royalties dovute. Partita con l’idea di fare cassa — magari per nobili motivi — la causa della Chiesa cattolica di Rio delinea uno scenario inquietante in cui i patrimoni dell’umanità diventano proprietà ideale dei loro amministratori: prospetta un dominio del mercato dove anche lo spazio immateriale e l’immagine monumentale dovrebbero diventare un prezzo. Guai se questa causa dovesse fare giurisprudenza: immaginatevi cosa accadrebbe se Parigi si costituisse parte civile per tutte le volte in cui è stata citata la Tour Eiffel, o se Praga desse battaglia per i diritti di immagine dell’orologio di Piazza San Venceslao. Ma al di là di questi paragoni, secondo me c’è un altro fatto inequivocabile: tutti possono intentare questa causa tranne la Curia di Rio, tutti possono sbagliare, ma non degli uomini di fede e di carità cristiana: è assolutamente paradossale, infatti, che sia proprio la Chiesa dei poveri a chiedere i diritti di immagine su Gesù Cristo.