È quasi ufficiale ormai, anche il segretario di Stato americano John Kerry lo ha confermato: Stati Uniti e Iran hanno avviato contatti per risolvere insieme la crisi irachena. Una svolta storica, forse in realtà un evento che segna un cambiamento generale di scenario a livello globale. Sta di fatto, in ogni caso, che il capofila degli “Stati canaglia”, secondo la classica definizione assegnata negli ultimi decenni dalla Casa Bianca al regime di Teheran, è diventato oggi per il presidente Obama interlocutore indispensabile con il quale allearsi per fronteggiare il caos mediorientale. «Nessuna ipotesi costruttiva sarà scartata», ha detto Kerry in merito all’ipotesi di una collaborazione militare con l’Iran.
Proprio in questi giorni a Vienna sono in corso i negoziati sul nucleare iraniano. Si tratta di un’occasione d’oro che entrambi i protagonisti della svolta non vogliono perdere. È in quella sede, infatti, che quasi certamente si svolgeranno colloqui informali fra una delegazione americana e una iraniana in merito alla crisi irachena. Il mondo cambia, e i nemici di ieri sono gli imprevedibili alleati di oggi. È così per Teheran che dal 1979, all’epoca della rivoluzione khomeinista, era diventata il nemico numero uno di Washington. Ed è così anche per l’America, descritta a lungo come “il grande satana” dagli ayatollah nei loro veementi interventi pubblici. Se questa è la novità più significativa, resta un fatto che l’avanzata repentina dei miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), in grado addirittura di minacciare Baghdad, ha preso alla sprovvista e messo in allarme una comunità internazionale quasi dimentica del Medio Oriente proprio mentre l’intera regione vive una stagione di cambiamenti e rivolgimenti profondi.
Fra le conseguenze dirette delle varie crisi concatenatesi a partire dalle primavere arabe, c’è l’infinito fiume di profughi che ha lasciato prima le città della Siria e ora, di nuovo, è in marcia lungo le strade irachene, a cominciare dall’oltre mezzo milione di abitanti fuggiti da Mosul, città in gran parte sunnita, e caduta in mando al gruppo jihadista, anch’esso definito sunnita e, come spesso avviene nell’area, portatore di una denominazione etnico-religiosa che nasconde intenti politici e militari concreti.
È in questo quadro mutato che l’amministrazione Obama sta meditando un intervento armato dall’alto con i “droni”, cioè gli arei telecomandati, che potrebbero infliggere perdite notevoli, alle tutto sommato esigue forze fondamentaliste. Per farlo, Washington vuole l’appoggio dell’Iran che, da parte sua, intende dare man forte al primo ministro iracheno – per altro suo alleato – Nuri al-Maliki.
Rohani, che si muove sulla stessa rotta, non a caso aveva detto nei giorni scorsi: «non escludiamo la possibilità di collaborare con gli Usa». Una frase, fino a non molto tempo fa, davvero impensabile.
Dunque il regime di Teheran, sciita (ma pure in questo caso il filone islamico d’appartenenza è solo uno degli elementi cui fare riferimento), che già contava su al-Maliki in Iraq e su Bashar al Assad in Siria, oggi vanta un’apertura di credito clamorosa da parte di Washington – cui la Casa Bianca lavora già da qualche tempo – , sul rapporto solido con Hezbollah in Libano e con Hamas nei Territori palestinesi. È una sequenza importante che assegna al governo autocratico di Teheran un ruolo di attore principale. Mentre l’altra capitale del mondo politico-islamico, Ryad, sede di un altro regime che ha ben poca dimistichezza con i diritti umani, la monarchia saudita, sembra oggi in difficoltà; il legame tradizionale con gli Stati Uniti pur non essendo venuto meno, non sembra più così indissolubile come in passato.
È una partita complessa, dunque, quella in corso, che si gioca – come sempre in Medio oriente – anche sul controllo delle risorse petrolifere. Ancora non va dimenticato che un filo rosso lega la Siria di Assad non solo a Teheran ma anche a Mosca; di conseguenza attraverso un reticolo di alleanze strategiche, il regime degli Ayatollah è oggi allo zenit del suo potere in Medio oriente.
Se poi al suo interno stiano maturando i semi di una crisi, questo non è dato vedere, quel che conta, ora, è il nuovo ruolo internazionale dell’Iran.
Sul piano militare l’uscita di scena degli Usa dal Medio oriente, a cominciare dal ritiro dall’Iraq, sta lasciando il segno. Nuovi attori entrano in ballo mentre l’America, dicono gli osservatori più attenti, guarda ormai ai propri interessi in Estremo Oriente. Tuttavia ben difficilmente il contesto arabo può lasciar dormire sonni tranquilli a Washington, mentre gli europei senza la guida statunitense sembrano incapaci di agire e di pensare autonomamente il Medio Oriente. L’intervento militare attraverso aerei-robot (qualora sia confermato) lascia del resto intendere che, nell’eventualità, Obama non intende perdere neanche un uomo sul terreno dell’Iraq dopo il fallimento dell’ideologia della “building nation”, la costruzione di una nazione, propugnata da Geroge W. Bush e rivelatasi una catastrofe politica.
Secondo fonti ovviamente non confermate, istruttori iraniani sarebbero già in Iraq per guidare al meglio le sfilacciate truppe governative contro i jihadisti, altrove si parla di capi tribù sunniti che appoggerebbero i fondamentalisti mentre volontari sciiti si appresterebbero a combattere l’Isis. L’ambasciata Usa a Baghad è presidiata da marines mentre una buona parte del personale è già stato trasferito. Uno scenario drammatico al quale vanno aggiunte le decine di migliaia di profughi che di nuovo si spostano verso il Kurdistan iracheno e altrove, in cerca di riparo dalla guerra.
È in questo contesto tragico, che le speranze dei settori avanzati delle società arabe – come di quella iraniana – di una progressiva apertura alla democrazia e di un prevalere delle correnti islamiche contrarie all’abbrutimento fondamentalista, oggi rimangono frustrate e deluse. Ma la storia del Medio Oriente ci ha anche abituati a sorprese e cambiamenti non previsti dagli analisti, avvenuti proprio quando tutto sembrava immodificabile.