Per la maggior parte degli italiani quella di Yara Gambirasio è stata una storia a puntate scritta nero su bianco sulle pagine dei principali quotidiani. Eppure, per tantissimi, questa drammatica storia è stata anche visiva. Non è stato difficile immaginarsela: il dolore dei genitori, quei tre mesi senza sapere, aggrappati alla speranza che la figlia 13enne fosse ancora viva, da qualche parte. Quell’urlo disperato che mamma e papà devono aver gridato quando il 26 febbraio 2011, a esattamente 90 giorni dalla scomparsa, il suo corpo senza vita è stato trovato vicino a Chignolo d’Isola. È facile immaginarsela perché la televisione ci ha raccontato più volte fatti del genere: Yara è stata la trasposizione reale di Laura Palmer ( Twin Peaks), di Rosie Larsen (The Killing) e di tutte le altre vittime che le serie televisive ci hanno consegnato. Paragone inappropriato, direte voi: Yara non era Laura. Non era finzione. Non aveva una seconda vita segreta che l’ha condotta in luoghi bui. No, era una ragazzina di 13 anni che amava la ginnastica artistica e che per strada ha incontrato il lupo cattivo, come nelle peggiori storie mai scritte.
Eppure il paragone c’è, perché la storia di Yara e la sua indagine diventeranno il soggetto principale di una serie TV che Pietro Valsecchi, produttore della Taodue Film, si è apprestato a definire «l’evento del prossimo anno televisivo». La notizia è arrivata la scorsa settimana, 48 ore dopo l’annuncio da parte delle forze dell’ordine che il presunto killer, quell’assassino che per tre anni e mezzo è stato soprannominato “ignoto 1”, è stato preso. Pietro Valsecchi aspettava quello, aspettava che su questa triste pagina di cronaca nera cadesse la parola fine, per dare il via alle riprese della miniserie. Se ci si ferma a riflettere sulla sceneggiatura, se si riuscisse per un attimo a pensare che tutto questo non sia accaduto per davvero, si capirebbe subito che i requisiti perché lo show funzioni ci sono tutti. C’è la vittima pura e innocente. C’è il mistero. Ci sono i colpi di scena: il DNA sul corpo della ragazzina che appartiene al figlio di un uomo morto nel 1999. C’è il paese di provincia che si riscopre una grande famiglia, come nella britannica The Guilty: i gruppi per cercare Yara e quel dolore condiviso, che ha toccato tutta la bergamasca e che ha spinto tantissimi (oltre 18mila persone) a fare volontariamente il test del DNA per individuare eventuali parentele con il killer. Ci sono quelle parole, ripetute a gran voce su tutti i giornali, che sembrano catapultare la storia indietro nel tempo: figlio illegittimo, relazione clandestina. E poi l’arresto shock: il “mostro” insospettabile, l’uomo della porta accanto, che aveva moglie, tre figli e due cani. Sarebbe tutto perfetto, televisivamente parlando. Sarebbe tutto perfetto, se non fosse dannatamente vero e dannatamente prematuro.
La vita reale è spesso fonte di ispirazione per la televisione: senza contare le produzioni basate sulla storia, che se pur adattate hanno elementi veritieri (da Romanzo criminale a Rome), molti episodi di procedural polizieschi stranieri (come gli americani Law & Order e Criminal Minds o il francese Profiling) hanno casi di puntata che ripercorrono fatti reali. In Italia c’è poi un grande precedente di realtà trasportata sul piccolo schermo, ovvero la miniserie di sei puntate Il mostro di Firenze, trasmessa su Fox Crime nel 2009. Ma lì c’era il fattore tempo a giocare a favore della sceneggiatura: i crimini dei “compagni di merende” risalivano al ventennio compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta e vengono raccontati tre decenni dopo. C’è stato il tempo del distacco, fisico ed emotivo. Nel caso di Yara no. Sono passati solo quattro anni dalla sua scomparsa, quattro anni in cui Yara è rimasta viva e vegeta nella memoria della gente, tormentata da quel quesito «chi ha ucciso Yara Gambirasio?». Valsecchi ha ammesso di essere al lavoro da un po’: la vicenda ruoterà principalmente intorno all’indagine, e vuole sottolineare l’impegno e la tenacia delle forze dell’ordine che non hanno mai abbandonato il caso e che hanno portato a termine una complessa indagine quando tutti — killer compreso — credevano che “ignoto 1” sarebbe rimasto senza nome.
Se è vero che va riconosciuto ai detective di non aver mai cercato i cinque minuti di gloria, di non essere mai apparsi in programmi TV mettendosi in primo piano e di aver continuato in silenzio il loro lavoro, va anche constatato che forse così dovrebbe finire la storia. E se termini come sciacallaggio mediatico e pornografia della morte (che hanno cominciato a impazzare su Twitter alla notizia della serie) non vi convincono, basterebbe fare un passo indietro e ricordarsi che in fin dei conti la storia non è ancora finita. Il fermo non è sufficiente. L’arresto non è colpevolezza. Se Massimo Giuseppe Bossetti sia o meno l’assassino di Yara lo deve stabilire un giudice. Se la serie dovesse vedere la luce prima della sentenza definitiva, allora sarà fiction, bella e buona, ai danni di quella ragazzina, sorriso in camera, apparecchio ai denti e passione per la ginnastica.