Quintali e quintali di spazzatura. Alimenti che potrebbero essere ancora consumati e invece finiscono nell’immondizia. Prodotti freschi, frutta, verdura, soprattutto pane. E così ogni italiano finisce per buttare quasi 76 chilogrammi di cibo all’anno. Un problema etico, ma anche economico. Secondo i dati raccolti da alcune mozioni esaminate pochi giorni fa a Montecitorio, gli avanzi delle nostre tavole costano quasi cinquecento euro a famiglia. Alla faccia della crisi.
Il dramma degli sprechi alimentari non interessa ovviamente solo l’Italia. Sono proprio le cifre globali del fenomeno a descrivere perfettamente il paradosso. Oggi quasi la metà di tutto il cibo prodotto su scala mondiale non viene consumato. Solo i Paesi industrializzati sprecano 222 milioni di tonnellate di alimenti. «Più o meno pari – si legge nei documenti depositati alla Camera – alla produzione alimentare disponibile nell’Africa subsahariana (230 milioni di tonnellate)». Secondo un rapporto pubblicato lo scorso settembre dalla Fao – l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura – i costi economici diretti sfiorano i 750 miliardi di dollari l’anno. Si parla di una quantità enorme di alimenti non utilizzati. Difficile persino da immaginare: 1,3 miliardi di tonnellate, un terzo della produzione totale del cibo destinato al consumo umano. La situazione ormai è insostenibile. A fronte di una popolazione di quasi sette miliardi, nel mondo viene prodotto cibo per 12 miliardi di persone. Eppure il numero di individui che soffrono ancora la fame sfiora il miliardo.
Stando ai dati della Fao, che ha recentemente commissionato uno studio al Sik, lo Swedish Institute for Food and Biotechnology, per orientarsi tra gli enormi sprechi alimentari è necessario distinguere tra “food loss”, «le perdite alimentari che si riscontrano durante le fasi di produzione agricola, post-raccolto e trasformazione degli alimenti», spesso direttamente riconducibili a carenze logistico-infrastrutturali e caratteristiche dei Paesi in via di sviluppo, e il “food waste”. È questo il fenomeno che ci riguarda più da vicino, «gli sprechi di cibo che si verificano nell’ultima parte della catena alimentare». Quasi sempre generati da fattori comportamentali.
E così ogni anno, spiega ancora la Fao, la media mondiale di cibo sprecato pro capite oscilla tra i 95 e i 115 chilogrammi. Mappamondo alla mano, le differenze sono evidenti. Se nel Sud Est asiatico e nell’Africa subsahariana il dato si attesta attorno ai 10 chilogrammi pro capite, gli sprechi relativi alla sola Europa sono molto più rilevanti. Stando a un recente studio della Commissione europea, nel nostro continente si sprecano 89 milioni di tonnellate di cibo. Una media di 180 chilogrammi pro capite. Quasi la metà – il 42 per cento – nell’uso domestico. Il popolo che butta più alimenti? Gli olandesi: con quasi 579 chilogrammi di cibo che ogni anno finiscono nella spazzatura. I più attenti sono i greci, con 44 chilogrammi. L’Italia si ferma a 149 chilogrammi di sprechi alimentari pro capite. Sotto la media continentale, ma ben al di sopra di quella mondiale.
Una realtà su cui riflettere, soprattutto a pochi mesi dall’avvio di Expo 2015, dedicato proprio ai temi della nutrizione. Com’è la situazione nel nostro Paese? Nonostante la crisi economica, gli italiani sprecano cibo per quasi 40 miliardi di euro ogni anno (dati forniti dalla Coldiretti). Alimenti che finiscono nella spazzatura, ma potrebbero nutrire 44 milioni di persone. Comportamenti eticamente discutibili. Sicuramente svantaggiosi dal punto di vista economico. Secondo i dati presentati alla Camera, ogni famiglia italiana spreca ogni anno una quantità di cibo pari a quasi 500 euro. Si tratta in buona parte di prodotti freschi (35 per cento), ma anche frutta e verdura (16 per cento). Un discorso a parte, anche simbolico, lo merita il pane. Uno degli alimenti per cui gli italiani hanno meno rispetto. Rappresenta il 19 per cento del cibo non consumato sulle nostre tavole. Considerato solo l’uso domestico, è come ognuno di noi buttasse ogni anno nella spazzatura 76 chilogrammi di prodotti alimentari. E questo nonostante le recenti ristrettezze economiche, che hanno spinto il 73 per cento degli italiani a risparmiare, anche tagliando la lista della spesa.
Stando alle cifre depositate a Montecitorio, certi comportamenti non ce li potremmo neppure permettere. Se in Italia solo il 6 per cento del cibo non utilizzato viene donato ad enti caritatevoli, restano numerosi coloro che continuano ad avere difficoltà a fare la spesa. È un dramma che non riguarda solo i Paesi più poveri del mondo. Nell’Unione europea sono quasi venti milioni le persone che «dipendono dagli aiuti alimentari». Mentre sfiorano gli ottanta milioni quelli che vivono al di sotto della soglia di povertà.
E poi ci sono le conseguenze poco conosciute, ma non per questo meno gravi. Ad esempio l’impatto ambientale degli alimenti. E la stretta relazione tra sprechi di cibo e clima. La decomposizione dei prodotti alimentari non utilizzati produce metano e gas. «Ogni chilogrammo di cibo prodotto – si legge ancora nelle mozioni esaminate alla Camera – comporta oltre 4,5 chilogrammi di anidride carbonica equivalente». Secondo la Fao, solo per produrre il cibo che verrà poi sprecato, vengono immesse nell’atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra ogni anno. Senza considerare i 250 chilometri cubi di acqua e quasi un miliardo e mezzo di ettari di terreno utilizzati per allevamenti e coltivazioni. Solo in Italia, del resto, vengono sprecati ogni anno 73 milioni di metri cubi d’acqua solo per le coltivazioni frutta e ortaggi che non saranno mai consumati. Stando ai dati dell’Istat, più del 3 per cento della nostra produzione agricola rimane addirittura nei campi ( si parla soprattutto di cereali). C’è chi è peggio di noi: in Inghilterra non viene raccolto il 30 per cento della produzione orticola, a cui corrisponde uno spreco di acqua pari a 550 milioni di metri cubi.