Perché Hillary Clinton dovrebbe temere i populisti

Perché Hillary Clinton dovrebbe temere i populisti

Su un piatto della bilancia c’è Eric Cantor, candidato alle primarie repubblicane sostenuto da una campagna elettorale costata diversi milioni. Vicino all’establishment di partito, vicino al sistema delle banche, co-responsabile dell’innalzamento del debito pubblico, vicino a Wall Street e alle grandi imprese, almeno a detta di Dave Brat — sull’altro piatto — forte del sostegno del Tea Party, acceso anti-corporativista, enorme critico del sistema bancario e teorico della democrazia diretta (all’americana, intendiamoci). Tronfio di una campagna elettorale costata intorno ai 200mila dollari eppure in grado di sbaragliare il favorito, lasciando i Repubblicani di ferro a domandarsi dove hanno sbagliato. Storditi e sfiniti, spaventati dalla minaccia populista e arroccati attorno alle poche convinzioni che ancora li tengono in piedi, al netto degli indici puntati verso le stesse lobby che fino a poco tempo fa — prima del populismo al potere — erano forza e vanto del sistema a Stati rossi.

«Quelli che popolano le banche e le società di investimento di New York e del Dc, sono gente che dovrebbe stare in carcere» argomentava Brat in campagna elettorale, «e invece sono alla corte di re Eric, che alimentano con generosi assegni». Il tono è quello che, in altri tempi, avrebbe potuto animare una convention democratica, quando i termini erano ancora accesi, fumanti e orientati in una direzione univoca. Ora a demonizzare le corporation sono gli stessi che si sono lasciati portare in groppa per anni. Il candidato al congresso del 7mo distretto della Virginia, un ambiente che definire “conservatore” è poco, pronto a mordere i polpacci dei suoi compagni di scranno in nome di ideali apparentemente diametralmente opposti a quelli della fazione che rappresenta.

«Quelli che popolano le banche e le società di investimento di New York e del Dc, sono gente che dovrebbe stare in carcere»

Degli errori di Cantor hanno parlato in molti, arrivando alla conclusione che l’unico grosso passo falso sia stato il fatto di rimanere incollato a quella che riteneva essere la linea di partito, senza sospettare nemmeno per un momento che il vento stesse cambiando. Ma la vera domanda che salta fuori come un proiettile dalla spirale dell’uragano delle primarie repubblicane è: cosa deve temere da questo quadro politico Hillary Clinton? Verrà anche per lei il momento di fare i conti con l’ondata populista, pronta a sfilarle il sentiero verso la presidenza da sotto i piedi (sempre ammesso che prima o poi decida qualcosa in merito)?

La risposta semplice è sì. L’ideale democratico si è allontanato da molto tempo dalla massa critica anti-corporation cui, per lo meno all’inizio dei movimenti Occupy, aveva guardato con simpatia. Non parliamo di un cambio radicale di posizione nei confronti del lobbismo spensierato, ma di una maggior preoccupazione verso gli interessi dei grandi elettori. I democratici che vincono le primarie hanno smesso le bandane e le bandiere da decenni, ora sono liberal in camicia Oxford e mocassini College che battono Wall Street con tutte le buone intenzioni del mondo. I populisti questo non lo capiranno mai, vista la scarsa inclinazione a comprendere le teorie alla base delle scelte politiche e ad ammettere l’esistenza di una pratica coscienziosa al di là della faciloneria con cui il Tea Party risolve i problemi a parole. La vera questione di questa faccenda, quella che dovrebbe preoccupare tutte le parti in causa — quelle che hanno una forte presenza al Congresso, per lo meno — è che le idee dei movimenti Occupy, che impensierivano i liberal, e quelle del Tea Party, che insidiavano i repubblicani, hanno subito una, nemmeno tanto lenta, deriva, che li ha portati a trovarsi molto più vicini di quanto vorrebbero stare. E di quanto sarebbero pronti ad ammettere.

Quello da cui dovrebbe guardarsi Clinton è la generalizzazione, da qualsiasi parte provenga. «Il politico x, del partito xy si è intascato milioni di dollari» è il piano su cui si è spostato da un po’ di tempo il dibattito e inseguirlo vuol dire fare il gioco degli elettori disinformati, che di solito si accontentano del poco che possono carpire dai discorsi coloriti dei deputati sul podio. Non sono molto bravi a comprendere il concetto di “corruzione” in teoria e a distinguerlo dal legittimo finanziamento alle campagne elettorali, preferiscono guardare negli occhi quelli che per loro sono i responsabili dell’inasprimento delle tasse, della crisi e della diminuzione dei posti di lavoro, facendosi poche domande riguardo al processo che ha portato a raschiare il fondo del barile. Brat è uno che non ha rubato, perché ha speso poco e dichiarato ogni singola iniziativa, Cantor — e per estensione Clinton o il democratico che ne prenderà il posto — stanno spendendo decisamente troppo per non giocare sulla pelle del popolo innocente. Il confine tra “parlare chiaro” e “abbassare i toni” si è fatto labile e i populisti di tutte le fazioni sono molto abili nel costringere gli avversari a superarlo.

La vasta maggioranza degli elettori americani è convinta che i ricchi abbiano troppa influenza sul potere, e questo aiuta in parte a spiegare la defiance subita dai liberal pro Wall Street dopo l’inizio della crisi, nel 2008.

Clinton è riuscita a tenersi fuori dal tiro incrociato dei cecchini populisti, per ora

Ma se c’è una cosa che il popolo generalizzatore sa fare bene è unire i puntini. Cantor ha fornito una serie di enormi punti che messi assieme hanno dato in pasto alla pubblica opinione un quadro deviato delle intenzioni del candidato repubblicano: ha votato a favore dell’aumento del tetto di debito pubblico, contro lo shutdown del 2013 e ha appoggiato una riforma dell’immigrazione a maglie larghe, dando l’impressione a chi era impegnato a osservare la superficie di aver favorito la crisi — cosa che in parte ha fatto, ma se tutto fosse così semplice la politica sarebbe un linguaggio universale. Clinton — che ha passato un bel po’ di tempo e speso un bel po’ di energie a spiegare perché lei e suo marito hanno intascato delle gran cifre parlando a compagnie del calibro di Goldman Sachs, salvo poi cercare di tornare sui suoi passi — è riuscita a tenersi fuori dal tiro incrociato dei cecchini populisti, per ora. Forse perché dalla sua parte sono tutti molto più preoccupati dell’amministrazione in corso, rispetto a quello che può venire da un, sempre più plausibile, cambio al vertice senza cambio di colore. Va infine ricordato che l’ex segretario di Stato ha già avuto moltissimo consenso dal voto popolare, il massimo nella storia degli Stati Uniti, e parte di quell’ascendente deve esistere ancora, quantomeno nelle intenzioni.

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