Dalle colline di Zvecan si innalza il monumento al minatore. Una colata di cemento in stile iugoslavo, alta una dozzina di metri, che dovrebbe ricordare il carrello con cui si trasportava lo zinco estratto dalle montagne tutte attorno. Nascosti tra i cespugli limitrofi si incontrano quattro ranger dell’esercito americano inquadrati nella missione Kfor. Sono quattro dei circa 5500 militari che per conto della Nato sorvegliano e mettono in sicurezza il Kosovo. Da qui si vede tutta Mitrovica, una delle ultime città europee divise da un muro. A sud la popolazione albanese e il resto del Kosovo. A nord le quattro municipalità a maggioranza serba. I ranger osservano dall’alto lo svolgimento delle elezioni. Sono pronti ad allertare le riserve che il generale Salvatore Farina, l’italiano al comando di Kfor, ha piazzato attorno alla città pronte a intervenire in caso di proteste o tumulti.
Militari Usa Kfor osservano l’afflusso alle urne a Mitrovica
In mezzo alla piana scorre l’Ibar, agli estremi del ponte principale, detto di Austerliz, dopo quindici anni ci sono ancora i nostri carabinieri a pattugliare gli accessi. Stavolta l’allerta è più elevata perché si stanno svolgendo le prime elezioni politiche a cui anche i serbi kosovari partecipano. E anche se a fine giornata l’affluenza è stata bassa e come primo partito gli elettori hanno riconfermato il Pdk di HashimThaçi, la giornata di domenica 8 giugno è passata alla storia. Un passo verso l’integrazione dell’etnia serba dentro la Repubblica del Kosovo. Una scelta non certo spontanea, ma dettata dalla nuova linea di Belgrado a favore della Ue. Una scelta che per diventare definitiva avrà bisogno di altro tempo. Non poco.
I serbi che vivono a Mitrovica nord, Leposavic, Zvecan e Zubin Polok usano ancora oggi i dinari e non gli euro, hanno targhe serbe e ricevono sussidi da Belgrado. Ma il fatto di aver riconosciuto l’autorità di Pristina apre una nuova fase per il Paese. Il panslavismo non sembra più essere la bandiera di Belgrado, i cui politici sono consapevoli che per proseguire nella strada d’ingresso in Europa dovranno sistemare le questioni rimaste aperte: ovvero, mettere una firma di riconoscimento sotto la dichiarazione di indipendenza unilaterale del 2008. Che questo avvenga al più presto sembra ormai diventata una questione cruciale per i principali partiti al potere a Pristina e anche per la diplomazia Ue. Meno per i ragazzi serbi. «Basta poter venire qui a trovare i nostri amici e avere la possibilità di muoverci con libertà», esclama il più loquace di un gruppo di venticinquenni proveniente da Belgrado che, all’ombra del monumento al minatore e alle spalle dei ranger Usa, beve rakia (la grappa locale) al termine di un rave party molto casereccio.
Mitrovica, l’ultima città divisa da un muro
Il disinteresse si ferma però quando cerchiamo di mischiare le carte delle etnie. Per loro i serbi del Kosovo non sono kosovari. E se la diplomazia Ue ha vinto la propria battaglia, l’integrazione è una faccenda di dna. Il contingente italiano di Kfor, oltre 500 militari, si divide tra Pristina dove fanno base i carabinieri e a Pec dove sorge la base Villaggio Italia. Il Multinational battle group west, oltre che da sloveni, austriaci, moldavi è composto dal 52 Reggimento artiglieria terrestre Torino pronto a passare le consegne ai Lancieri di Montebello. Dei 9 siti patrimonio dell’Unesco presidiati dagli italiani ne è rimasto uno. Si tratta del monastero di Decani a due passi da Pec che gli albanesi chiamano Peja.
Il monastero ospita tre dei simboli di riferimento per la religione serbo-ortodossa e fa il paio con il Patriarcato di Pec dove vengono incoronati i pope. «Soltanto attorno a Decani», spiega il capitano Gianluca Greco, portavoce del contingente, «Kfor ha la prima responsabilità d’intervento. Negli altri siti religiosi e nel resto di Paese con il passare del tempo abbiamo passato le consegne alla Kosovo Police e a Eulex, la missione Ue che aiuta Pristina a ricostruire uno Stato di diritto». Nel 2004 quando per l’annegamento di due bimbi albanesi fu accusato un serbo (senza prove) e si scatenò un violentissimo attacco ai monasteri e in poco tempo furono cacciati centinaia di serbi. A Prizren, nel sud, ne sono rimasti una decina su duemila. A quel tempo solo gli italiani intervennero e difendere i luoghi sacri per Belgrado. Altri contingenti preferirono girarsi dall’altra parte. In fondo i serbi del Kosovo, dopo che i militari di Milosevic avevano cacciato e ucciso migliaia di albanesi kosovari, da sconfitti si ritrovavano rinchiusi nelle enclavi che anni prima avevano riservato ad altri.
Il monastero di Decani
Avendo rispettato e fatto rispettare la risoluzione dell’Onu, oggi i nostri militari sono quelli che si muovono meglio tanto nei villaggi serbi quanto tra la comunità albanese. Non solo per il supporto umanitario e la costruzione di infrastrutture, ma anche per le iniziative di sostegno civico e corsi tecnico professionali che stanno contribuendo a creare nuove figure lavorative. In molti si aspettano che quando la Nato abbandonerà la missione cinetica di posizione per lasciare spazio a compagnie mobili di osservazione sul terreno e di supporto al futuro esercito kosovaro (in tutto non più di 500 uomini), l’Italia continuerà a ricoprire un ruolo primario. E delicato. Perché se fino ad ora l’Unione europea si è concentrata con successo sulla Serbia e sui serbi per attrarla nella propria sfera e per fare accettare ai kosovari di etnia serba l’autorità di Pristina, gli albanesi sono stati un po’ trascurati. Quanto il loro rapporto con Tirana.
Il capitano Gianluca Greco, portavoce del contingente italiano in Kosovo
È vero, è stato creato il Kosovo, ma coloro che avevano combattuto sotto le insegne dell’Uck per creare la grande Albania hanno passato le consegne alla politica senza aver dimenticato i loro vecchi obiettivi. «L’Europa si sta concentrando sui serbi», spiega Nehmi Lajai, presidente dei veterani Uck, «e questo sta bene, ma prima o poi dovrà capire che noi albanesi siamo più europei dei greci e dei bulgari e dovrà capire che siamo un popolo». Il messaggio è chiaro e forte. Ancora oggi gli iscritti alle associazioni dei veterani e dei parenti delle vittime sono 27mila. Tutti si definiscono apartitici. «Siamo nazionalisti ma non sciovinisti», aggiunge Pren Maraschi al tempo della guerra comandante di uno dei battaglioni più attivi, «abbiamo combattuto prima per difenderci dalle violenze di Belgrado e poi per la Grande Albania. Dopo è arrivata la politica». Come dire che molte promesse non sono state mantenute. Spetterà ai prossimi osservatori Nato e ai nostri militari tenere accesi i termometri. Non è detto che certe richieste rivolte a sud e a Bruxelles non si risveglino all’improvviso.
PER APPROFONDIRE