Rai, il bilancio dei paradossi: più produce più perde

Rai, il bilancio dei paradossi: più produce più perde

Negli anni dispari la Rai va meglio. In genere chiude il bilancio senza segni rossi. Nel 2013 infatti l’utile è stato di 5 milioni di euro. Noccioline. Pur sempre un grande risultato rispetto ai 245 persi nel 2012. Ma peggio dei 39 guadagnati nel 2011 e meglio della perdita di 128 milioni nel 2010.  Qui sta l’anomalia di viale Mazzini. Gli anni pari per via dei grandi eventi sportivi sono più stressanti. Solo che, a differenza di un’azienda in grado di stare sul mercato, in Rai il super lavoro arreca costi. Invece di portare ricavi. 

Analizzando la media dei risultati di bilancio del triennio 2010-2012 il ritorno sull’equity, ovvero il principale indice di redditività – e quindi di appetibilità dell’azienda – nel 2010 segna un -34% contro il +2% della media di settore. Nel 2012 rasenta il -83% contro un -20% di media settore. Discorso simile per l’Ebitda che non subisce nemmeno i picchi degli anni dispari. Nel 2010 la Rai chiude con un +6% di Mol contro un +20 di media settore, nel 2011 con +11% contro un +21%, e nel 2012 con un +3,7% contro il 16 e rotti della media di settore. A ciò bisogna aggiungere che il costo del lavoro in rapporto al fatturato è costantemente doppio rispetto alla concorrenza. Problemi strutturali che un’azienda privata non potrebbe mai permettersi di trascinare per anni e decenni. Con tale premessa l’utile e la perdita diventano quasi risultati accessori. Vittime o premiati della situazione contingente fatta di maggiori investimenti o forti cali della pubblicità.

Come ha scritto la Corte dei Conti, il buco in bilancio (in riferimento al 2012, ndr) è legato a diversi fattori, in particolare i grossi investimenti legati alla copertura delle Olimpiadi e una perdita secca di circa 200 milioni sugli introiti pubblicitari (contrazione del 22% rispetto al 2011). In linea con quanto ha dichiarato il direttore  generale Luigi Gubitosi presentando l’ultimo bilancio: «Anche nel 2011 vi fu un pareggio ma, attenzione: in due anni abbiamo perso quasi il 30% degli introiti pubblicitari (dai 964 milioni del 2011 la raccolta Rai è scesa a 682, ndr)». Eppure, nonostante le difficoltà del contesto generale e la maggiore concorrenza sia sul fronte tradizionale che su quello multimediale, viale Mazzini ha mantenuto la leadership in termini di share. Sui canali specializzati la percentuale spalmata sulla giornata è di 6,2 punti contro i 5,3 di Mediaset e i 4,6 di Sky. Nell’ascolto generalizzato i canali Rai mantengono la leadership con un 40% in prima serata, contro il 33,8% di Mediaset, il 7% di Sky-Fox e il 19,3% degli altri canali.

La pubblicità perde invece l’8,5%, media tra il -19% del primo trimestre e il +6% del quarto. Quella della tv è calata solo del 4% mentre la Rai ha avuto performance peggiori del mercato sia nella pubblicità radiofonica (-17,3%) sia nel cinema. Nessuno nega che la crisi abbia colpito tutte le aziende che vivono di pubblicità. Il problema è che la Rai continua a vendere in grandissima quantità pubblicità tabellare. Il product placement ha reso nel 2012 meno di 2 milioni di euro e con tutti i suoi programmi televisivi l’ente pubblico incassa sul Web 8 milioni di euro e rotti contro i 30 del concorrente naturale Mediaset.  Per via del fortissimo calo della pubblicità l’impatto del canone sulla totalità di ricavi nel 2012 è arrivato a pesare il 63%, mentre nel 2011 la percentuale superava di poco il 57%. Al contrario i ricavi pubblicitari sono scesi dal 34 al 27% e le altre forme di ricavi dal 10,1 al 9,7 per cento.  

Il rincaro del canone a 112 euro ha portato nelle casse dell’azienda 40 milioni in più nel 2012 e spiccioli nel 2013. Ma per l’azienda non è sufficiente. Ne vuole di più perché c’è troppa evasione. È calcolata una percentuale attorno al 27 per cento. Così invece di pensare a strade alternative alla mammella pubblica, una delle ricette indicata dai vertici aziendali nei commenti al bilancio è la stretta fiscale.  Con l’obiettivo di portare a casa 500 milioni di euro. L’adeguamento  agli standard europei  e «il conseguente aumento di gettito tramite l’aggressione del fenomeno anomalo dell’evasione rappresenta un fattore abilitante», si legge nelle note, «che oltre a contribuire al ripristino dell’equilibrio finanziario, accelererebbe il processo di rinnovamento tecnologico indispensabile per la Rai e per gli investimenti in prodotti di qualità».

È chiaro che cinquecento milioni di euro  porterebbero i conti in una situazione ottimale ma non risolverebbero le storture.  Fare investimenti senza pensare alla redditività, sarebbe un processo inverso e opposto rispetto a tutte le dichiarazioni politiche di privatizzazione o anche solo di efficientamento. In poche parole più canone, meno razionalizzazione. Più potere dei sindacati e sempre meno logica di business. Col risultato che conviene lavorare meno per portare a casa minori perdite. Assurdo.  Anna Maria Tarantola, sottolineando la decisione del governo di tagliare 150 milioni dal bilancio dell’azienda pubblica, ha recentemente detto alla commissione di Vigilanza del Parlamento: «Non svenderemo Raiway, la società che possiede i ripetitori per diffondere il segnale della tv pubblica». Certo è solo un modo per fare cassa senza tagliare costi o personale. Ha però aggiunto che «per un cambiamento radicale è necessario intervenire sulla missione, sulla governance, sul canone; questo non è alla portata della Rai, che è comunque pronta a collaborare». E su questo ha ragione la Tarantola. La Rai è in mano alla politica e solo la politica può salvarla. Abbandonandola. Anche parlare di privatizzazione con tali percentuali di redditività è come credere agli unicorni. 

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