“Se mi lasci – recitava il titolo di un celebre film con Jim Carrey – ti cancello”. Tra le tante parabole istruttive che ci insegnano come la Rete non sia solo un luogo di favola, di progresso e di libertà che qualcuno racconta in modo idealizzato ed acritico, c’è anche quella raccontata dalla guerra che sta esplodendo in questi giorni tra YouTube e gli artisti (o le case discografiche) che non intendono sottoporsi ai suoi diktat.
Il supercolosso americano delle immagini in Rete, infatti, ha deciso di lanciare un nuovo prodotto, YouTube Music pass, da opporre al già affermato motore di ricerca musicale Spotify. E qui iniziano i problemi: perché dopo aver dettato le condizioni di accesso agli artisti e alle etichette, YouTube ha anche minacciato delle sanzioni: chi non sottoscrive i contratti, accettando le royalty proposte dal network, si trova cancellato, fuori dalla Rete. Se si immagina che in questa piccola lista di epurati potrebbero finire nomi come i Radiohead, Adele e i Sigur Ros – oltre agli impenitenti storici come Billy Bragg – ci si rende conto di quanto sia forte il potere discriminatorio che la forza del monopolio conferisce a YouTube in questa trattativa. Siamo, forse, di fronte alla prima controversia in cui appare immediatamente visibile quello che prima non non lo era: molte altre reti distributive, infatti, hanno il potere di far sparire un prodotto da uno o più negozi, ma niente è paragonabile nella radicalità degli effetti all’idea di essere cancellati, addirittura, da un motore di ricerca.
In termini di distribuzione niente è paragonabile all’essere cancellati da un motore di ricerca
La Rete, insomma, esalta ancora di più, soprattutto in negativo, il potere pervasivo di un monopolio. Questo potere, poi, è accentuato dal fatto che la posizione dominante viene conquistata in un modo quasi invisibile, quasi sempre gratuito, dal fatto che per gli utenti non diventa una scelta consapevole, ma un’abitudine. Nel caso dei motori di ricerca e dei network che selezionano riproducono musica, però, il Web fa sì che si fondano due poteri: da un lato quello della fusione e della vendita di un servizio di riproduzione musicale, dall’altro quello di inventariamento e catalogazione. Per cui si crea il paradosso che se non sei sul catalogo non esisti.
Non è cosa da poco, in un mondo in cui spesso, i confini della conoscenza, coincidono con quelli del tuo motore di ricerca, soprattutto per generazioni che non hanno conosciuto il dizionario, l’abbecedario, ma solo la casellina ricognitiva di Google. Il recente caso di Uber – servizio di autotrasporto che fa concorrenza ai tassisti – ci ha dimostrato che le app possono riscrivere le leggi: questa polemica oggi ci fa pensare che i motori di ricerca possono definire i confini di ciò che è conosciuto, o conoscibile e anche di quello che non lo è.
Ma ancora più importanti sono i poteri accessori che il motore di ricerca già esercita senza il bisogno di discriminare: quello di farci conoscere, quello di suggerirci una scelta, quello di promuovere un prodotto in maniera palese od occulta, quello di associare i suoi suggerimenti alle nostre scelte pregresse. Un servizio che ci sembra gratuito non lo è più, o forse non lo è stato mai. Lo paga qualcun altro, o lo paghiamo noi senza vedere: il che, fuori dalla mitologia della Rete, di solito viene chiamato furto: il potere di monopolio molto spesso ci sottrae il diritto più importante: quello di scegliere senza condizionamenti.