Giuseppe Bossetti ha un legale d’ufficio: si capisce appena si sente parlare questa donna. Non ha l’esperienza e la diplomazia di chi è abituato a gestire il circo mediatico, trasmette ansia e nervosismo alla prima domanda che riceve, quando dice che non vuole parlare e poi improvvisa una mezza conferenza stampa.
Giuseppe Bossetti è stato fermato da un finto controllo domenica scorsa, perché potesse essere verificato il suo Dna, e già oggi si ritrova trasportato dal profilo indistinto di “ignoto uno” ai panni dell’“orco” e dell’“assassino”. Giuseppe Bossetti è un presunto colpevole, molto probabilmente colpevole, sul quale la prova del Dna getta una luce di certezza scientifica, così ci dicono gli esperti: eppure questo non significa che dopo quattro anni di inchiesta si debba diffondere il suo profilo a soli quattro giorni dall’averlo individuato, non è opportuno che la notizia la dia un ministro, non significa che si debba pubblicare la sua foto in mezzo alle due figlie, sia pure con l’alibi della schermatura del viso delle bambine. Quindi la prima domanda è: si può provare a scrivere di un presunto colpevole, anche se quasi certo, senza animare l’ideologia del linciaggio mediatico, senza agitare corda e sapone, senza triturare anche la sua (di certo incolpevole) famiglia? Linkiesta ha ricostruito il percorso nitido e quasi algebrico di una inchiesta da manuale, ed è una lettura intrigante come un romanzo. Ci ha spiegato come la geniale premonizione di un film come Gattaca abbia, ancora una volta, trasformato una idea di sceneggiatura cinematografica in realtà. In quel film — con Etan Hawke e Jude Law — si arrivava all’assassino, proprio come è accaduto nel caso di Yara, attraverso uno screening di massa su tutti i possibili sospettati: una procedura che all’epoca sembrava magia futurista e che da oggi diventa prassi. In questa inchiesta — insomma — Orwell e Simenon si sono dati un mano, e la tecnologia si è aggiunta all’intuizione investigativa di andare alla caccia di un figlio illegittimo che era raccontato come una leggenda metropolitana, ma che doveva esistere per una logica scientifica induttiva.
Ma, come diceva ieri un opinionista come Paolo Liguori, alla certezza scientifica adesso bisogna aggiungere una ricostruzione compiuta, «perché senza una storia non c’è una verità». Se non hai il racconto e la spiegazione che le da un senso, l’inchiesta non può dirsi conclusa. E che questo non sia un eccesso di garantismo, ma uno scrupolo doveroso lo spiega la vicenda di Mohamed Fikri che nel 2010 fu arrestato fermando una nave. Anche li era un caso apparentemente chiuso: c’era un’intercettazione che inchiodava il giovane tunisino, c’era un cantiere edile che spiegava le particelle nei polmoni di Yara, ma non c’era un movente. Ma non c’era la storia. E la frase incriminante si rivelò — clamorosamente — tradotta male. L’intercettazione c’era, ma il modo in cui la interpretavano era sbagliata. Per questa certezza di cartapesta, a cui i giornali e i media aderirono in modo acritico, Fikri è stato prosciolto solo dopo tre lunghi anni. Ecco perché i maestri del giallo americano, con in testa John Grisham, dicono che non si può chiudere un caso senza un movente e senza una prova di riscontro. Un po’ di prudenza non la dobbiamo al presunto colpevole di oggi, ma soprattutto all’innocente di ieri, che aveva la sua foto pubblicata da tutti i giornali quando lo credevano colpevole, e non appare da nessuna parte oggi che è di certo innocente.