Avevo questa VHS, la prima, con la custodia in plastica pesante, di quelle che a un certo punto si rompono sui fianchi e non garantiscono più alcuna protezione alla cassetta. Con la copertina di carta infilata male che prima o poi si stropiccia tutta e perde colore. Quando il nastro ha cominciato ad accartocciarsi e a frusciare su alcune scene l’ho sostituita con un’altra, pescata dalla collezione di qualche periodico — Panorama, forse — con la copertina di carta. È ancora lì, la copertina, ma la VHS non la guardo da molti anni, da quando non possiedo più un videoregistratore.
Per un po’ ho pensato che questa relazione ventennale con le videocassette di Pulp Fiction facesse di me un fan con una bella storia. L’ho pensato finché non ho scoperto che chiunque abbia visto il film più di tre volte crede di avere una bella storia sul suo rapporto con Pulp Fiction. Perché la forza di quel Tarantino lì è proprio quella di creare un cult dal niente, di dipingere un immaginario che prima non c’era, di tessere le leggende metropolitane dove non ne trovava da citare. Di impilare, una sull’altra, una dopo l’altra, infinite frasi che sarebbero entrate non nell’immaginario cinematografico, ma nel folklore umano. E non voglio togliere niente a Bastardi senza gloria o Django quando affermo, con convinzione e rigore, che Tarantino non sarà mai più quello lì, che i suoi attori non saranno mai più giovani di così e che un film del genere non tornerà. Inutile continuare a provarci.
Poco prima di cominciare a strapparmi i capelli perché non avevo idea di che taglio dare a un articolo che raccontasse una pellicola che i più conoscono a memoria, mentre la guardavo passare al cinema in versione originale — siano benedetti i fandom più oscuri — mi sono reso conto di una cosa: quando guardo Pulp Fiction, io non vedo più Pulp Fiction, cioè il film nella sua intera e visionaria complessità, ma una serie di fotogrammi singoli, esistenti per sé e per sé fondamentali, che fanno da pivot a un film che non ha azione ma si costruisce sui dialoghi, si attorciglia attorno a una sceneggiatura talmente grandiosa da non aver bisogno di mostrare quasi niente mentre succede, visto che tutto è facile da raccontare. Allora ho deciso di cercare di descrivere il film che vedo io, attraverso i fermo immagine che mi sembrano più importanti, perché da soli contengono l’infinità di flashback, di storie e di leggende che compongono l’opera monumentale passata alla storia col nome di Pulp Fiction.
1. Definizione di “Pulp”
È la primissima cosa che si vede del film, la prima, grande autocelebrazione del regista, la definizione di quello che succederà nella pellicola, di lì in poi. Ma getta anche le basi per una comprensione di tutto l’universo tarantiniano, pseudo-tarantiniano e wannabe-tarantiniano a venire. Pulp Fiction non appartiene a chi lo ha visto un milione di volte, ma a chi lo vede per la prima volta. Con la dichiarazione di intenti del primo fermo immagine si prepara già il resto: un territorio inesplorato, una specie sconosciuta alla scienza e il pubblico sa che deve essere pronto a tutto. E se non lo sa ancora meglio: verrà travolto.
2. Honey Bunny e Pumpkin
Pulp Fiction è un film denso di azione senza che se ne veda più di un venti per cento. È un’azione descritta e costruita attraverso i dialoghi, serpeggia tra le parole e si appoggia a una sceneggiatura che se non è perfetta, si avvicina molto ai miei canoni di perfezione. Se dovessi descrivere «nonno Irving che possiede il negozio da generazioni e tiene una .44 Magnum sotto il bancone», per esempio, sarei perfettamente in grado di farlo. Senza averlo mai visto. Lo stesso dicasi per Tony Rocky Horror che vola nel tetto della serra, Volpi Forza Cinque e, ovviamente, Floyd, il rivale di Butch che va a tappeto e non si rialza più.
3. Il titolo
Pulp , cioè pulp e fiction, cioè storia. Qualcosa da aggiungere? Ah, sì, Misirlou e una colonna sonora fenomenale.
4. Lo «Scusa, ti ho interrotto?»
Quello che succede, da questo punto in poi, è che i rapporti di forza del film vengono continuamente stabiliti e ribaltati. Costruiti e abbattuti, spesso e volentieri senza preavviso. Improvvisamente, come la decisione di Jules di freddare il frangettone sul divano. E ogni volta ci domandiamo dove eravamo arrivati, ci chiediamo se non perderemo il filo di tutto, ora della fine. I buoni — se ne esistono — diventano cattivi e gli incontri di boxe che devono andare in un modo vanno in un altro. Qualcuno muore, qualcun altro ci va molto vicino e «nessuno ammazza nessuno, a parte me e Zed», ma poi finisce per lasciarcela Zed, la pelle. Chi ha in mano la situazione all’inizio del film, finisce per lasciarsela scivolare dalle dita nello spazio di attraversare la San Fernando Valley con una spia sul sedile posteriore e trovarsi col destino macchiato, di nuovo, a proprio svantaggio. Chi nelle prime scene ha il piano perfetto, probabilmente uscirà dalla tavola calda in lacrime e no, non mi pento nemmeno per un secondo di questi spoiler.
5. La faccia di Jules mentre spara
Quello che Tarantino sa mettere nei suoi film, da Le iene a Django, è un distillato di cattiveria pura, variopinta come un carnevale ed esplosiva come una scatola di fuochi d’artificio accesa da un’unica miccia. Non guarda in faccia nessuno — men che meno lo spettatore — e così facendo riempie la sala di soddisfazione. Il volto di Jules mentre svuota il caricatore addosso a Bred, appena dopo il supercitato Ezechiele 25,17 (passo inesistente, per inciso), è quanto di più drammaticamente fedele allo stereotipo tarantianiano esista al mondo — sarà anche perché è uno dei suoi primi personaggi. Chi deve sparare spara, chi deve morire muore, non ci sono regole di empatia: gli antipatici di solito fanno una brutta fine, ma il concetto di simpatia è arbitrario e dipende unicamente dal regista. Non c’è appello, in Pulp Fiction succede quello che deve succedere con una determinazione spaventosa, che va oltre le strepitose prove d’attore dei protagonisti. Le esplosioni di rabbia dei film di Tarantino non sono “credibili”, sono “reali” e come tali, uniche. Quando Jules spara lo fa in modo da convincere chi lo sta guardando che non ci sia altra via. Come un predicatore nel bel mezzo del sermone, il «pastore dei figli smarriti».
6. Il cerotto di Marsellus
La nuca di Marsellus Wallace e la faccia di Butch hanno due cose in comune: sono entrambe segnate e inespressive. La prima è il preludio di qualcosa che non siamo ancora autorizzati a vedere, ma conosciamo. È il primo sguardo su chi comanda, possiamo farci un’idea della forma di quel Marsellus che ha fatto volare Tony Rocky Horror da una finestra e che «non ha l’aspetto di una puttana». Quello intorno a cui, a conti fatti, ruota tutto e che tutto ha messo in moto. La seconda è il presagio della piega imprevista che prenderanno gli eventi. Butch è convinto, non tanto della predica che Marsellus gli sta facendo nell’allungargli la mazzetta perché «alla quinta ripresa il tuo culo andrà al tappeto», quanto di quello che dovrà fare per rimanere fedele a se stesso, per dimostrare di non essere un vecchio pugile e per colpire l’orgoglio prima che l’orgoglio colpisca lui. Il fatto che tutto questo ragionamento abbia la nuca di Ving Rhames e la faccia di Bruce Willis aiuta molto a capire il senso di marmorea decisione che aleggia nell’aria.
7. La siringa
Qui c’è il sangue. Inteso come plasma — reale, tangibile, fatto di piastrine e globuli — ma anche come volontà di non lasciare niente all’immaginazione se non tutto quello che può essere immaginato. Però della siringa, del rosso che si mischia e si diluisce, del discorso sui piercing di Rosanna Arquette, di quello sugli hamburger, della macchina sfregiata, del discorso sugli animali “sporchi”, di tutta quella lunga, sfibrante, sussurrata, serie di particolari che parte da «garçon vuol dire ragazzo» e arriva al muffin di Jules, passando per il kit da buco di Vince e l’eroina sfrigolante in punta di cucchiaio, di tutto questo c’era bisogno. Perché l’equilibrio sta tra il particolare maniacale e il discorso riportato. Tra la favole e il tangibile. Per capire l’andamento rimbalzante di Vince serve il rito della siringa, come per capire l’overdose di Mia serve un bagno pieno di donne indifferenti («ho detto, cazzo che botta!»), per capire la redenzione di Jules servono tre buchi nel muro (che a guardare bene ci sono prima degli spari) e per capire le motivazioni di Butch serve che ce le spieghi Christopher Walken.
8. «Andiamo?», i piedi di Uma Thurman
Ogni volta che compare un nuovo personaggio dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione prima di essere soddisfatti. Può essere, come nel caso di Pumpkin, Honey Bunny, Jules e Vince, che si tratti soltanto di collocarli nella storia, di cercare di intuirne le intenzioni e il destino, o può darsi, come nel caso di Marsellus e Mia, che sia proprio questione di immaginarne il volto. L’apparizione di Mia passa per una vecchia — ma allora, forse, inedita — fissazione di Tarantino: i piedi. Arriva disegnando la silhouette sul pavimento di parquet e tratteggiando il carattere ancheggiante attorno alla stanza. Mia, quella Uma Thurman 24enne con un colore di capelli che non risponde un minimo alla sua carnagione, con uno sguardo sempre sorpreso per niente, con una sensualità che va oltre il poster destinato a diventare tra i più conosciuti al mondo. E già quando compaiono i suoi talloni — prima ancora, le sue mani — si sa tutto del twist, di Girl del fatto che fosse bastata l’idea di lei a tenere in piedi la trama fino a quel momento.
9. Steve Buscemi
Questa è più che altro una curiosità, io devo ammettere che per molto tempo non l’ho riconosciuto e l’ho visto solo quando ho smesso di chiedermi cosa ci facesse il suo nome nei titoli di testa.
10. Il puntino rosso
Il punto dove colpire, Tarantino lo conosce bene. Sa quali ingranaggi muovere per dare avvio al domino di sensazioni che lascia caracollare il film verso il degno finale. Il punto dove colpire è sempre il cuore. Per riportare in vita qualcuno che è più di là che di qua, per redimere un’anima persa che prima di uccidere cita a memoria le Scritture, per tenere in piedi una trama costruita su cinque spunti differenti (se avete pensato “tre”, contate meglio). Se c’è una cosa che è sempre riuscita bene a Tarantino e che qui sfiora il magistrale, è quella di infondere nel pubblico quel particolare tremore alle gambe che anticipa la voglia di alzarsi, correre fuori dalla sala e raccontare a tutti il film senza mai prendere fiato, scattando in verticale in un modo molto simile a Mia dopo l’iniezione che la riporta tra i vivi. Per fare questo picchia su punti ben precisi dell’immaginario e difficilmente sbaglia mira. Qualcuno mi faceva notare, non molto tempo fa, come la scena di Bruce Willis che pulisce la katana dopo aver infilzato un paio di stupratori poco simpatici, torni identica in uno dei Kill Bill a venire. Mi ha fatto pensare a come Tarantino — che sa benissimo che a quel punto del film chiunque vorrebbe prendere Butch e abbracciarlo senza curarsi delle condizioni sanguinolente in cui verte — sia stato abile, non soltanto nel cospargere Pulp Fiction di puntini rossi che conducono l’adrenalina al cuore, ma di estendere questa pratica a tutta la sua produzione.
11. Il bacio di Vince
Qualcuno ha scritto che Pulp Fiction è privo di sentimento. Non è così, ma bisogna avere molta pazienza per scovare i momenti di lieve smottamento sentimentale sparsi qui e là, un po’ nascosti da armi, parolacce e sangue. Il più evidente è appena all’inizio: il bacio tra Pumpkin e Honey Bunny, che poi si evolverà nell’uscita vibrante dei due a fine pellicola. Però io preferisco il bacio molliccio e incantato che John Travolta — grasso, grassissimo — lancia alle spalle di Uma Thurman, mentre lei rientra in casa dopo tutta la “questione Mia”. Dentro quel momento, che dura lo spazio di uno schiocco, c’è quasi un’ora di tensione amorosa, e fino a quel momento, che se ne va immediatamente in buio, lo spettatore ne è stato consapevole. Salvo accorgersene solo quando è passato.
12. L’orologio del padre, ovvero i flashback
Pulp Fiction è tutto storia nella storia, che si incastra in un’altra storia, che a sua volta si fonda su una storia riportata e che si incarna in una non detta. Senza Christopher Walken — che di per sé è già un miracolo — ci mancherebbero le basi per capire l’intero episodio di Butch, e così non apprezzeremmo Bruce Willis e, insomma, sarebbe un peccato. Questo dei flashback è un tema fondamentale per l’universo tarantiniano, perché se fondi un’intera filmografia sulle citazioni, arrivando al punto da girare intere pellicole di sole citazioni, un po’ di leggenda devi cominciare a spargerla da subito.
13. Butch
Quando invece torniamo nella storia da un flashback lo facciamo di botto e generalmente troviamo che ormai tutto è perduto. In questo caso Butch sta per combattere, ma non c’è niente di buono all’orizzonte.
14. La violenza del piccolo canguro
Il piccolo canguro, che è relegato a una parte da pochissimi secondi, una comparsata infima, è il grilletto che fa scattare una lunga parentesi di spari, botte, stupri e «rimedi medievali», dalla quale i protagonisti usciranno con i connotati cambiati, se gli va bene, o non usciranno affatto, se gli va meno bene. Il primo a volare, crivellato dalla sua stessa arma è Vince, nel bagno, lasciando cadere una copia di Modesty Blaise, poi tocca a Marsellus, che però si rialza per cercare di impallinare Butch in un grottesco inseguimento zoppicante che farà una vittima di cui non sapremo mai il nome. Fino a incappare nella trappola di Zed e compare, che aprirà a entrambi nuovi orizzonti, lascerà lo “storpio” penzolante come un cencio da cucina, il compare di Zed sbudellato da una katana e Zed alle prese con un futuro non molto lungo ma decisamente poco luminoso. La violenza di Pulp Fiction è una questione di dosi, c’è per tutto il film ma viene somministrata alla bisogna, come una medicina buona. Chi ha parlato di violenza gratuita non ha capito con quanto amore Tarantino ha aperto e chiuso i rubinetti di quello che aveva in mente. Il futuro lo prova.
15. Il tizio nascosto
Se una delle determinanti nel film è la costruzione temporale schizofrenica, tanto da indurre più di un tentativo di ricostruire la storia in maniera lineare, bisogna sottolineare come in questa costruzione si nascondano gli agenti dei fatti che ci troviamo davanti. Quello che non vediamo è spesso molto più determinante, ai fini della storia, di tutto quello che c’è di esplicito. Proviamo con qualche esempio: il quarto uomo, quello col «cannone a mano» nascosto nel bagno, determina, con le sue pallottole deviate dalla mano di dio, le riflessioni di Jules, la fine di Marvin e quindi l’inizio dell’epopea di Wolfe, di conseguenza i vestiti di Vince e Jules e parte delle eventualità che portano a Mia, nonché il destino di Pumpkin e Honey Bunny, che se si fossero trovati davanti a un Jules non miracolato se la sarebbero vista peggiore. Il padre di Butch, e prima di lui il nonno e il bisnonno, determinano l’attaccamento di Butch per l’orologio, l’importanza della dimenticanza di Fabienne e danno avvio a tutta la vicenda tra Butch e Marsellus, causando la morte di Zed e del suo compare, ma anche il perdono di Marsellus nei confronti di Butch e quindi, di fatto, l’incolumità di quest’ultimo. Dello “storpio” non è dato di sapere. Bonnie, la moglie di Jimmie nell’ultimo episodio, determina la fretta nello sbarazzarsi del cadavere di Marvin, l’intervento di Wolfe, la lezione di efficienza e una delle più citate battute della storia del cinema. Mostro Joe risolve i problemi di auto. Tony Rocky Horror dà qualcosa di cui parlare a Vince e Mia e causa una delle espressioni più meravigliose mai passate sulla faccia di Uma Thurman. L’esistenza della città di Amsterdam condiziona almeno un paio di vite, l’oggetto luminoso nella valigetta ne costa almeno tre, lo “storpio” si lascia scappare Butch. Il tizio che rovina la macchina di Vince gli fa venire voglia di bucarsi e così ad libitum.
16. Il cervello di Marvin
Su questo non c’è molto da dire, se non che è uno dei breaking point più riusciti della storia del cinema.
17. Il caffè di Jimmie
Se non ci fossero i discorsi sul niente, tutto sarebbe così esagerato da coprirsi di una patina di incredibilità dannosa. Ci salva il caffè di Jimmie, così buono da scuotere anche The Wolfe. Ma anche le cameriere vestite da Marilyn e Mimi Van Doren, i massaggi ai piedi e il massiccio impiego di parole che si fa in più di due ore di film. Senza altro scopo se non quello di riempire semplicemente i silenzi, tra un dialogo e l’altro.
18. La festa di Wolfe
Ci sono un po’ di cose che chiunque conosca abbastanza bene Pulp Fiction si domanda, la mia preferita è: cosa ci fa Wolfe a un party in smoking alle otto del mattino?
19. Brutto figlio di puttana
C’è un momento, in alcuni film, in cui il senso di gratitudine verso chi ha concepito quella particolare storia, ha deciso come raccontarla, con quali personaggi, con quante inquadrature, se a colori o in bianco e nero, quanto farla durare e dove farla finire, si mescola alla profonda soddisfazione per il fatto di vedere i due lembi di un cerchio congiungersi e combaciare perfettamente. È in quel momento che di solito nasce il desiderio di rivedere il film. Per quanto mi riguarda e per quanto riguarda Pulp Fiction, non c’è volta che arrivando alla battuta del portafogli «quello con sopra scritto “brutto figlio di puttana”» io non pensi che sarebbe ora di riavvolgere le mia VHS e tornare all’inizio, perché oltre quel punto c’è solo un fronzolo di finale, perché è lì che tutto si spezza definitivamente, mentre Honey Bunny è in lacrime e Pumpkin (o Ringo) si rende conto di averla scampata anche piuttosto grossa, mentre fuori il resto di Los Angeles passa — fuori dalla tavola calda e fuori dal set — e dentro nessuno osa muoversi. Mentre Vince non può crederci, e noi sappiamo che non gli resta molto da vivere e Jules si crogiola nella sua illuminazione, mentre Marsellus sa di avere per le mani un diver ma Butch sa di non essere d’accordo, mentre Mia sta probabilmente nuotando — o è quello che ha appena fatto —, mentre Jimmie fa colazione con Bonnie e The Wolfe con la figlia di Mostro Joe. Mentre il film sta finendo, ma non è ancora finito e a conti fatti è rimasta solo una cosa da dire:
20. Scritto e diretto da Quentin Tarantino