Se dio ci avesse voluto bestie, non ci avrebbe armato fino ai denti. Non mi ricordo chi l’ha detto, ma sintetizza perfettamente il paradosso della ragionevolezza umana. Abbiamo la ragione e fino a un certo punto sappiamo come usarla, altrimenti ci saremmo estinti da tempo. Non che non ci proviamo continuamente, a estinguerci. Ma c’è sempre qualcosa di molto simile a un istinto di sopravvivenza inconscio legato alle nostre cinture come un elastico, che quando siamo arrivati a una certa distanza dal porto franco della nostra umanità ci strattona indietro e ci sbatte contro il muro della realtà: siamo fatti per regnare su questo mondo e non ci è permesso mandare tutto in vacca.
Carlo D’Amicis ha scritto un libro di una potenza straordinaria, fenomenale, brutale, assassina. Schietta come schietto può essere un linguaggio primitivo, incomprensibile forse, non articolato, ma che non si può dire lontano dall’obiettivo. Ha scritto dei cacciatori, che sono perduti in un luogo fuori dal mondo civilizzato, ma tanto vicini alla civiltà da toccarla, se vogliono, da raggiungerla se ne hanno il coraggio. Ha scritto degli animali, che prima ci sono, poi non ci sono più, poi ritornano ma con un’altra forma. Che sono la fonte di vita, ma solo se accettano di morire per il Toro e i suoi compagni. Ha scritto che non c’è speranza di umanità, ma anche che la bestialità non è irreversibile.
«C’è qualcosa che ci riporta alla natura, che poi non è detto che sappiamo gestire. Ma c’è una necessità, una sorta di fortissima malinconia per il selvatico, che avevo voglia di esplorare» mi ha raccontato D’Amicis qualche sera fa. «Avevo questo cane, un husky che non aveva mai visto la neve. Era nato e cresciuto a Roma, da cani che non sapevano cosa fosse, però in qualche modo ce l’avevano dentro. E quando per la prima volta l’ho portato a vederla, l’ha riconosciuta subito, come se fosse tornato nel suo elemento». I suoi personaggi sono così, fuori dal loro elemento ma contemporaneamente sommersi completamente. Come lo sguardo di certi animali: sperduto ma selvatico allo stesso tempo. Come se tutto fosse sempre una sensazione nuova, un posto da imparare, ma contemporaneamente tanto sicuri di sé da tirare dritto per la loro strada ignota.
Poi c’è l’umanità, che è altro. E quando l’umanità entra nei confini del selvatico, ruggente e chiassosa, con luci e bibbie e dèi altrimenti inesistenti, finisce per stravolgere tutto. Soprattutto se stessa. In Quando eravamo prede (minimum fax, 2014) l’umanità è estranea finché non si immerge completamente nelle dinamiche animalesche che governano i protagonisti, finché non strepita per far parte del branco e tutto d’un tratto — in una specie di doppio carpiato che cambia le sorti del racconto — è il branco a incarnare la ragionevolezza che l’umanità non riesce più a capire.
Tra maschi da monta e femmine alla catena, tra gregari sterili e perversioni indecenti
Nella quarta di copertina, Nicola LaGioia si è inventato un parallelismo azzeccato tra La Strada di Cormac McCarty e La fattoria degli animali, di George Orwell. Vorrei perfezionarlo. Quando eravamo prede ha dentro la deriva societaria Orwelliana in uno scenario post (o pre?) apocalittico alla McCarty, ma ha anche la devozione per il selvaggio di Golding e la rassegnazione al destino di Saunders. Provate a mischiare Il signore delle mosche con Pastoralia, il richiamo sfrenato del selvatico con la razionalità ostentata e le dinamiche da supermercato. Provate, e guardate se non viene fuori qualcosa di molto simile al romanzo di D’Amicis. Che non assomiglia a niente che abbia scritto prima, ma nemmeno a niente che nessun altro abbia mai scritto, perché osa avventurarsi tra maschi da monta e femmine alla catena, tra gregari sterili e frustrati e perversioni al limite dell’indecenza. Tra alcol e fucili e pelli di alce buttate sulle spalle a mescolare la bestia all’uomo così a fondo da non capire più che cosa stiamo guardando.
Quando la fine arriva, la ragione è qualcosa di completamente diverso rispetto all’inizio. Stiamo parlando della fine dell’uomo e dei suoi primordi. Abbiamo imparato il linguaggio e la religione, a farci la birra e conservarla in cantina, a cuocere in padella dei topi a sei zampe, probabilmente tossici, e la differenza tra un gatto e una lince. Abbiamo imparato tutto e ancora non sappiamo niente, l’umanità è lontana e il bosco è ostile. E così sarà per sempre.