TaccolaDieci cose che forse non sapete sulle Pmi italiane

Dieci cose che forse non sapete sulle Pmi italiane

Per parlare di Pmi andando oltre i discorsi da bar, sarebbe meglio conoscerle. La Sda Bocconi, attraverso il suo Osservatorio sulla competitività delle Pmi, dà modo di vederle più da vicino. Una rilevazione sui bilanci dal 2007 a oggi di 56mila Pmi, con fatturato tra 5 e 50 milioni di euro, per la prima volta ha permesso di sfatare qualche mito e venire a conoscenza di verità non scontate. Vediamole.  

0. Centoventi miliardi e 405mila posti di lavoro in fumo

Qui nessuna sorpresa, ma una premessa d’obbligo: dall’inizio della crisi sono andati in fumo centoventi miliardi di euro di fatturato, sono stati persi 405.317 posti di lavoro e sono scomparse 8.841 piccole e medie imprese (sempre tra i 5 d i 50 milioni di fatturato). In altri termini ha chiuso i battenti il 16% di imprese fondamentali per il Paese perché, pur costituendo solo il 6,1% delle imprese italiane, producono il 39% del Pil e occupano 2.291.000 persone. Non sorprende che di queste chiusure ben poche siano arrivate all’inizio della crisi. Dal 2009 la tendenza negativa non è più fermata e il 2013 è stato il peggiore di tutti gli anni recenti in termini di saracinesche abbassate.

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1. Quelle rimaste vanno meglio delle grandi aziende

Da questa selezione quasi darwiniana, chi è rimasto non se l’è cavata male. Il fatturato delle aziende superstiti è cresciuto del 26% tra il 2007 e la fine del 2012, ovvero l’equivalente di una crescita media del 4,8% l’anno. C’è stata una sola battuta d’arresto nel 2009 (-5,3%) e il 2012 è stato piuttosto debole. Ma a sorprendere è che il confronto con le società di maggiori dimensioni (fatturato superiore ai 50 milioni di euro) mette in luce una maggiore capacità di ripresa, in particolare nel 2012, rispetto alle sorelle maggiori. 

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Anche la redditività operativa è maggiore per le aziende più piccole: al crescere delle dimensioni del fatturato il Ritorno sull’investimento (Roi) diminuisce. C’è il risvolto della medaglia: più un’impresa cresce più è solida e meno è gravata da oneri finanziari. Essere più grandi paga nel lungo termine, insomma. 

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2. Gli oneri finanziari pesano sempre meno

È vero, come sottolineato mille volte, che il credit crunch è tutt’altro che finito e che è peggiore di quel che ci raccontano. Ma è anche vero che il costo degli oneri finanziari si è ridotto molto a partire dal 2009. Merito della caduta dei tassi d’interesse. Chi ha avuto credito, insomma, ha potuto approfittare di un bel vantaggio. 

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3. Gli azionisti hanno messo mano ai portafogli

Volenti o nolenti, gli azionisti delle aziende hanno messo mano ai portafogli. Possono fare di più, come ha chiesto di recente il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, ma il dato dello studio è piuttosto chiaro: tra il 2007 e il 2012 la crescita del patrimonio netto è stata del 35%, contro il 20% circa dei debiti. Tale incremento si deve anche alle ricapitalizzazioni effettuate dai soci, che sono pesate per il 12,3% sull’aumento complessivo del capitale sociale.

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4. Le imprese padronali vanno meglio

Non è un grande spot per le public company il grafico che mette a confronto le performance delle società in base al livelo di concentrazione delle proprietà. Quando questa è molto concentrata (tipicamente c’è solo un proprietario), o quando la proprietà è abbastanza concentrata, il tasso di crescita è più elevato rispetto a quando la proprietà è frammentata. 

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5. L’agroalimentare vince su tutti gli altri

Saremo noti nel mondo per il design e i mobili, ma il vero made in Italy di successo è quello gastronomico. Tra il 2007 e il 2012 la crescita delle Pmi in termini di fatturato è stata in media del 7,7 per cento. Si difendono molto bene la meccanica (grazie all’export, aggiungiamo), il settore chimico-farmaceutico e il sistema moda, gli unici quattro comparti a reggere anche nel 2012. Molto più critica la situazione negli altri settori, con il legno-carta e il mobile-arredo in fondo alla classifica. Il bonus mobili del governo Letta, rinnovato di recente, pare stia dando dei frutti, ma i conti si faranno a fine 2014.

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6. Crescono i fatturati, non la redditività

I segni positivi che abbiamo appena visto riferiti ai fatturati spariscono se si parla di redditività. Il Roi (ritorno sull’investimento) è continuato a decrescere e solo il comparto chimico-farmaceutico e quello di alimentari e bevande ha tenuto botta. Ancora una volta, sono i mobili a subire i colpi della crisi, soprattutto a causa di un mercato immobiliare in profonda depressione. 

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7. Una su cinquanta ce la fa

Quante vanno veramente bene tra le 46mila Pmi tra 5 e 50 milioni di fatturato esistenti nel 2012? Ben poche: non basta crescere in termini di fatturato. Se si considerano due fattori chiave come la redditività superiore alla media e un rapporto tra debito ed equity inferiore alla media, ecco che solo il 2,5% del totale passa la selezione. Sono 1.165 aziende d’oro, da prendere a modello per provare a ripartire. 

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8. Lombardia, il campione smarrito

Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte e Liguria: sono le regioni con la maggiore incidenza di Pmi “di successo” (le 1.165 citate sopra). In generale si concentrano in misura superiore nel Nord-Est. E la Lombardia? Se si parla di Pmi, domina ancora in termini numerici, ma non di performance.

9. Start-up non è bello

Altro mito infranto: quello delle start-up che trainano il mercato. I dati dicono tutt’altro: soltanto il 5,6% delle Pmi “di successo” è stato costituito da meno di 10 anni. Al netto della fragilità delle start-up, aggiungiamo noi, è abbastanza normale che imprese nuove abbiano una redditività minore e un tasso di indebitamento maggiore. Se son rose, ci vuole qualche anno perché fioriscano.  

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10. Ci sono 7.500 Pmi da non lasciare sole

Al di là delle Pmi si successo, ce ne sono altre 7.500 che lo studio cataloga come “da sostenere”: hanno tutti i requisiti per diventare di successo, come una struttura finanziaria molto solida e performance reddituali superiori alla media delle Pmi. Ma negli ultimi tre anni hanno registrato tassi di crescita inferiori alla media. Non sembrano imprese decotte: vale la pena lasciarle in balia delle tempeste?

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