C’è qualcosa di classico e del tutto atteso nelle reazioni dell’industria di Hollywood all’escalation palestinese. È qualcosa di radicato, radicale e confortevolmente inquietante che aleggia sulla San Fernando Valley dal 1948, anno di fondazione dello stato di Israele. È la sensazione di avere una certezza, fredda e conservatrice, spietata e reazionaria, ma pur sempre una certezza, nel mare in tempesta delle incertezze mediorientali. L’industria sta con gli ebrei, c’è poco da fare.
Il 21 luglio, nel corso di una puntata del Daily Show, Jon Stewart ha espresso la sua posizione piuttosto nettamente, a favore della causa palestinese. Senza spendere troppo entusiasmo mal riposto, senza condannare a dito teso le colpe di Israele — che a ben vedere possono tranquillamente essere ripartite in parti uguali, e volano fischiando sui Qassam quanto sugli Arrow — ma fissando quei punti fermi che per altri si sono trasformanti in brecciolino insidioso. «Non è facile prendere una posizione» ha detto Stewart «ma il fatto di contestare le decisioni o muovere una critica all’umanità israeliana non è esattamente come essere pro-Hamas». Poche voci si sono sollevate in risposta, e non era così scontato, visto che in altri casi — leggi Rihanna, che per pochi minuti ha lasciato online un tweet che invocava la tregua, Zayn Malik, minacciato di morte per aver scritto un blando “Free Palestine”, e Dwight Howard — l’indignazione ha travolto i tweet con la furia di un’offensiva di terra. Minacce di morte, bagliori di propaganda e la delusione di entrambe le parti, prima per la presa di posizione poi per la vigliacca rinuncia.
E intanto l’industria, storicamente schierata, è troppo impegnata a sussurrare, per trovare il tempo di alzare la voce. Una scelta opinata e saggia? Può darsi, visto che di anni per imparare la morigeratezza ne sono passati e che gli esempi di fanatismo da stadio non sono mai la scelta più elegante. Il dialogo sul conflitto a certi livelli dell’intrattenimento ha i toni di una pacata discussione da salotto bene, fatto di botte più azzardate che chiassose e risposte pensate e articolate. La grossolana domanda un po’ provocatoria dei popolani, alla quale i nobili rispondono con un buffetto sarcastico. «Disinformati» è il termine più ricorrente nelle risposte alle richieste di un commento da parte delle alte sfere del cinema, della musica e della televisione statunitense. «Disinformati e azzardati» e poi una scrollata di spalle, senza mai spingersi un passo oltre quanto concesso on the records per non scatenare l’uragano dei media. Haim Saban, imprenditore, produttore televisivo e centoduesimo uomo più ricco del mondo, ha formulato un pensiero così forte in risposta all’esposizione di Rihanna e Howard, che non ha passato il vaglio del suo stesso ufficio stampa. Segno che, se anche un pensiero c’è, non è il caso di consegnarlo alla ribalta.
«Le celebrità hanno tutto il diritto di esprimere la propria opinione, ma devono fare attenzione a dare un peso a quello che dicono e essere consapevoli del fatto che riceveranno una risposta» ha dichiarato a Hollywood Reporter Rick Taylor, consulente politico di Los Angeles. La risposta, normalmente, arriva dalle masse incolte, più che dai professionisti. Corre sui social ed è violenta quanto poco argomentata. Chi ha degli interessi reali nella questione, coloro che si potrebbero azzardatamente definire “coinvolti”, se non altro a livello di vicinanza emotiva, si guardano bene dal prendere parte alla discussione, se non per prodursi in un cenno conciliante o in un consiglio paterno in direzione degli impulsivi filo-palestinesi altalenanti — vale la vecchia domanda: «Perché ci si accorge del problema sono quando Israele risponde?». «Ci sono questioni nelle quali i personaggi dello spettacolo dovrebbero essere coinvolte, l’ambiente o il sociale, per esempio. Ma la politica estera? Non ha molto senso. Con tutto il rispetto per Rihanna, avrebbe dovuto studiare un po’ a fondo la faccenda prima di esprimersi pubblicamente» ha detto Ken Solomon, Ceo di Tennis Channel, in preda a una vena di ovvietà occlusiva.
Intanto, quelli che su suolo statunitense sono slogan isolati, presto insabbiati dalla pacatezza della controparte, in Europa diventano iniziative più strutturate, ma condannate a sortire lo stesso effetto. Tralasciando le tristi sortite nostrane, quando assieme a Penelope Cruz, Javier Bardem e Pedro Almòdovar, una folta schiera di attori e personaggi dello spettacolo spagnoli ha firmato una lettera per denunciare il “genocidio” compiuto da Israele e invitare l’Unione Europea a intervenire nei confronti dei bombardamenti, il resto dell’industria ha sollevato le sopracciglia solo di un millimetro in più rispetto al normale. «Gaza sta vivendo l’orrore in questi giorni, viene bombardata da terra, dal mare e dall’aria. Le case dei palestinesi vengono distrutte, gli viene negata l’acqua potabile, l’elettricità e il fatto di poter raggiungere liberamente gli ospedali, le scuole e i campi, mentre la comunità internazionale non fa nulla» recita il testo. E le ragioni dell’opinione pubblica restano simili alle stesse, radicate convinzioni che vogliono i picchi di interesse relegati ai momenti di maggior tensione, mentre per il resto del tempo il silenzio dei media suggerisce che nei territori palestinesi regni la pace.
Per tornare al punto: l’industria sta con gli ebrei, e non prende parola. A conti fatti questa è la soluzione migliore: un silenzio rispettoso, tuttavia, tanto nei confronti di Israele quanto della Palestina. Alle volte il chiasso non fa che accrescere la tensione e sterilizzare il confronto, spostandolo nel campo della performance, strappandolo a quello della realtà. C’è una guerra in corso — la chiamino come gli pare — e questo è un fatto che non passa attraverso le opinioni, per quanto spettacolari siano. L’industria lo sa, vuoi per abitudine, vuoi per scaltrezza innata, vuoi per spirito di sopravvivenza, e lascia perdere. Come è giusto che sia.