Il culto di Jonny Valentine

Il culto di Jonny Valentine

Ci sono due elementi della stessa scena, scelti in maniera casuale e arbitraria tra qualche migliaio di diversi altri. Il primo è facile: porta un nome che non è il suo, vestiti che non sono i suoi, una voce che è la sua solo al 70 per cento, un taglio di capelli che gli appartiene ma che ormai è suo quanto dell’umanità che lo circonda. È facile perché sta sul palco e tutti lo stanno guardando, perché scintilla e luccica, perché i riflettori gli sono rivolti in devota attenzione, perché ha dietro di sé un centinaio di persone che stanno lavorando per lui. E “lavoro” significa sudore, fatica e poco sonno.

Il secondo elemento è più in basso, più difficile da rintracciare perché si mescola ai suoi simili — e i suoi simili sono in decine di migliaia — i riflettori vanno a cercarlo una sola volta e più che altro gli planano sopra, lo sfiorano. Forse sarebbe corretto dire che il secondo elemento è come le fragole: un frutto composito. Fatto di tanti piccoli frutti che conferiscono una forma aggraziata a un corpo altrimenti sgraziato e ondulatorio, mentre il primo elemento si sgola sul palco. Mettiamola così, il secondo è un elemento globale, il primo un elemento singolo, ma a conti fatti — in antitesi con la metafora — è il secondo, il frutto composito, a desiderare di assaggiare il primo e quando i due si incontrano, in momenti sempre concitati ma calcolati nel dettaglio, sembra che stia per succedere. L’uno inghiottirà l’altro, per logica o istinto.

Quello che mi faceva montare i nervi di Justin Bieber era il frangettone. Quella specie di casco biondo-rossiccio che portava con noncuranza distratta, come se fosse la cosa più normale del mondo avere i capelli che cadono un paio di millimetri sopra gli occhi e non ci fosse niente di strano ad andarsene in giro con l’aria da giuggiolone serio facendoli svolazzare a destra e a sinistra senza contegno. Tuffandosi e uscendo dalla folla vibrante. Per finta, senza mai arrivare a toccarla. Poi è venuta quella specie di rockabilly pompato e lo sforzo di sembrare sfacciato, e allora ho capito che non c’era più niente da fare. Nemmeno lui era sopravvissuto al pubblico.

C’è questo romanzo di Teddy Wayne , si chiama La ballata di Jonny Valentine (minimum fax, 2014, traduzione di Chiara Baffa), che parla dell’importanza di credere in sé stessi anche quando ancora non si sa bene quali sono i confini della propria personalità, se a undici anni — quasi dodici — si vuole affrontare quel salto nel vuoto che è la notorietà planetaria, avendo magari un talento sconfinato ma dovendolo far dialogare con l’immensa inesattezza delle logiche di mercato. Che ti vogliono sfacciatello quando tu vorresti essere innocente, dolce e attento quando tu vorresti mollare gli ormeggi dei tuoi più biechi istinti preadolescenziali, calmo quando attorno a te la gente urla e piange, si sbraccia e strepita. Ed è per te, il primo elemento, quello luccicante sul palco, che il secondo impazzisce.

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Quello che succede a livello sinaptico quando una ragazzina di dodici, tredici, anche quattordici anni si spezza, si schianta al suolo in un pianto incontenibile per uno sguardo di sfuggita, è l’innesco di un incastro emotivo non scontato. In quel momento l’unica cosa che ha in testa, mentre si dispera in un misto di gioia e grata rassegnazione, è la certezza che un sentimento tanto intenso e doloroso non potrà passare mai. Fermarsi mai. Sarà il suo destino di essere umano, quello di seguire per sempre un unico idolo in religiosa riverenza e fanatismo indiscusso. Harry Styles lancia un bacio e un occhiolino e in quattro svengono, per davvero. La ragione perde la sua forma e si mischia con l’istinto riproduttivo in maniera così confusa da far passare in secondo piano anche la musica, che in altri casi, nell’ambito di passioni più “mature” è il motore e l’agente della stima, del culto. «Se penso ai miei testi, mi rendo conto di essere uno sfigato» riflette Jonny Valentine — il Justin Bieber di Wayne. «Parlo di ragazze che mi lasciano, del dolore che mi procurano, mai di come io possa lasciare una ragazza, prendere l’iniziativa». E se ci fosse altro, oltre la frenesia dell’incontro con l’oggetto del desiderio, se il messaggio contasse qualcosa in quest’asse incrinata fandom/divo prepuberale, le folle urlanti se ne renderebbero conto e l’incanto sparirebbe. Ma quando la questione verte poco sul messaggio e tanto sul flusso ormonale incontrollato, si rischia di perdere l’orientamento. Le major lo sanno, ma sanno anche che non durerà.

Quello che c’è dall’altra parte delle transenne è un essere umano molto più consapevole di sé rispetto a quanto possano percepire i fan

Quello che c’è dall’altra parte delle transenne, oltre le immense guardie del corpo, protetto da una patina di brillantezza inceronata è un essere umano, paradossalmente, molto più consapevole di sé rispetto a quanto possano percepire i fan. È orientato verso l’obiettivo, anche se non del tutto conscio della strada che porta alla meta. Tenuto in piedi da un apparato mastodontico, fatto di luci e spettacoli pirotecnici, una serietà quasi maniacale nell’organizzazione e la necessità di crescere il prima possibile senza, potenzialmente, crescere mai. Perché quando il bambino di porcellana si incrina, quando il contatto che manda l’impulso dal primo al secondo elemento, da sopra a sotto il palco, si dissocia, non rimane niente da tentare e il fenomeno diventa irrecuperabile, il declino irreversibile. Se c’è qualcuno di eterno, in questa strana combinazione di fattori, è proprio il pubblico: mutevole, ma per questo destinato a sopravvivere, nell’eterno ricambio generazionale, all’oggetto della venerazione. Quando Justin Bieber ha perso attrito non è stato per la voce, per i tatuaggi o per le pose da macho, ma perché ha lasciato indietro l’innocenza. Il suo pubblico è cambiato nei volti, nelle bacche che compongono il frutto, ma è rimasto uguale nella sostanza, nell’emozione. Sempre disperata, sempre potenzialmente eterna. Vite destinate a prendere il loro giro, regolari nel ricordo di quella che per poco è stata un’ossessione, finché quel ricordo, da solo e senza dolore, sfumerà in un sorriso.

Non c’è errore nel culto, dal momento che non è dettato da una fede e non si fonda su premesse cognitive, anche se chi lo vive potrebbe illudersi diversamente. L’errore, se vogliamo andarlo a cercare, sta nel pensare di poter spingere il fenomeno oltre il suo corso naturale. Una volta iniziato lo scollinamento, non c’è modo di arrestare il processo di declino, a meno che non si voglia incorrere in fenomeni psico-sociali della portata di MJ — nel migliore dei casi, dove il genio supera quella che per rispetto chiamerò “eccentricità” — o Miley Cyrus — niente attenuanti, niente giustificazioni, niente.

Teddy Wayne svolge bene un fenomeno complesso, raccontando una storia plausibile e rendendo evidente quanto esista, in effetti, un disequilibrio tra chi sviluppa il culto e chi lo alimenta. Ma se all’inizio di questa storia l’idea è che se la passi meglio quello sul palco, alla fine è evidente che è meglio pensarci su. Dopotutto, c’è chi può contare su un futuro di ricordi e chi rischia di rimanere solo coi rimpianti. Il tempo dica la sua.

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