Riforma del lavoro in cambio di flessibilità sui conti

Riforma del lavoro in cambio di flessibilità sui conti

Ai molti che chiedono che fine abbia fatto il Jobs Act in Parlamento, bisogna rispondere che i destini della legge delega sul mercato del lavoro vanno legati alla necessità del governo di ottenere in Europa più flessibilità per la correzione dei conti pubblici.

Questo è un motivo in più per essere preoccupati se la riforma è ferma, ma anche un motivo per ritenere che probabilmente qualcosa si muoverà presto. Se verrà concesso un ritardo nel percorso di aggiustamento dei conti dipenderà dalla decisione discrezionale della Commissione. Le regole approvate nel documento dell’ultimo Consiglio Europeo parlano chiaro: il ritardo sarà concesso solo a fronte della prova che le riforme messe in atto diano luogo ad un prevedibile miglioramento dei conti pubblici negli anni seguenti.

A questo fine l’unica riforma spendibile, poiché in uno stato abbastanza avanzato di discussione, pare proprio quella del lavoro. Tuttavia, a causa delle molteplici resistenze, rischiamo di arrivare all’appuntamento europeo con una riforma dai contorni non sufficientemente chiari per ottenere deroghe. La riforma deve presentare almeno un provvedimento che sia ben individuabile e difendibile come propulsore della crescita e quindi del miglioramento dei conti pubblici. Fino ad ora a questo fine si può spendere solo la liberalizzazione del contratto a termine. Il che potrà portare ad una maggiore occupazione nel breve periodo ma non necessariamente ad un miglioramento della qualità del lavoro e della crescita nel lungo periodo.

In altre parole bisogna fare di più. Le possibilità sono molte: ci si può concentrare sulla riforma del contratto a tempo indeterminato (il famoso contratto a tutele crescenti); si può decidere di puntare sulla revisione del sistema di cassa integrazione e dei sussidi di disoccupazione; si può agire sul sistema dei centri per l’impiego o sul salario minimo e una revisione contestuale del sistema di contrattazione salariale.

Il contratto a tempo indeterminato deve essere più conveniente per le imprese dal punto di vista normativo ed economico se non vogliamo esser sommersi dai contratti a termine; la cassa integrazione dovrà essere più ordinata e giusta per cui tutte le imprese contribuiscono e tutte hanno un eguale accesso; abbiamo bisogno di centri per l’impiego molto più efficienti per gestire il programma europeo della garanzia giovani, e del salario minimo e più contrattazione decentrata per incentivare la produttività. Abbiamo bisogno di tutte le riforme di cui sopra, ce ne basta probabilmente una per ottenere la maggiore flessibilità sui conti.

Bisogna però che il tratto della riforma sia chiaro e traducibile in inglese per gli occhi dell’commissario agli affari economici (al momento l’austero finlandese Katainen). E che sia approvata con tanto di decreti attuativi.

L’Europa già ci giudica su due programmi europei, ma non ci giudica particolarmente bene. Su garanzia giovani le preoccupazioni sono forti: il 1.5 miliardi di euro stanziati nei prossimi due anni andranno spesi in condizioni di svantaggio rispetto agli altri Paesi europei. Noi facciamo leva su un sistema di centri per l’impiego assai meno efficace di quello di tutti i nostri Paesi vicini e la sfida dell’efficienza della spesa si annuncia assai difficile. Il secondo programma sono i fondi europei. L’ultimo ciclo 2007-2013 ha visto una spesa complessiva di 13 miliardi, l’80% dei quali spesi in progetti di formazione di vario tipo. Il prossimo ciclo 2014-2020 prevede una spesa di 24 miliardi su 7 anni. È già molto famoso l’impietoso commento di Roberto Perotti ed altri pubblicato su lavoce.info, non c’è nessuna evidenza empirica che gli oltre 500mila progetti di formazione abbiano prodotto risultati validi in termini di maggiore occupazione dei beneficiari. In assenza di valutazioni credibili dei corsi di formazione, sarebbe quasi da chiedersi se i soldi europei non sarebbero meglio allocati come sussidi alla creazione di nuovi posti lavoro: almeno potremmo verificare l’aumento o meno della domanda di lavoro.

In conclusione, dobbiamo fare chiarezza sul tratto della riforma del lavoro, e per quanto possa essere antipatico, ancora una volta imparare dai tedeschi. In faccia alle molte critiche hanno approvato una legge sul salario minimo che è assolutamente chiara nell’intento: coprire con un salario minimo federale la gran massa dei lavoratori che sono rimasti esclusi dalla copertura dei contratti collettivi nazionali. Benché il salario minimo da solo non porti automaticamente una crescita maggiore (non per loro, ma forse per noi sì se con salari più alti importassero più prodotti italiani), tuttavia se non li imitiamo almeno nella chiarezza dell’intento con cui scrivono e approvano le leggi sul mercato del lavoro, la conclusione sarà che loro sono comunque capaci di fare le riforme e noi no.

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