«Mi chiamo Paolo Adinolfi, e sono un’ombra». Inizia così una parte della piéce teatrale Toghe Rosso Sangue di Giacomo Carbone dedicata ai magistrati della repubblica italiana scomparsi in questi anni perché uccisi dalla criminalità organizzata, dalla mafia e dal terrorismo. Tra i tanti, tra i più noti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, c’è anche Paolo Adinolfi, scomparso per sempre nel nulla e senza una ragione venti anni fa a Roma. Questa storia entra di diritto tra i tanti misteri d’Italia, perché di questo giudice integerrimo che indagò negli anni ’80 su tante operazioni finanziarie opache nella Capitale, tra gli interessi della Banda della Magliana, i servizi segreti deviati, la mafia e Gladio, non si sa niente a parte che scomparve il 2 luglio del 1994. Nessuna traccia, nessun ritrovamento di cadavere, testimonianze poche, alcune di pentiti, ma alla fine niente di niente. Un buco nell’acqua, un puzzle ancora frammentato dove le figure appaiono e scompaiono senza un ordine logico. La famiglia non ha mai smesso di cercarlo. E ha ricevuto al momento solo porte sbattute in faccia. Persino dall’Anm, l’Associazione Nazionale Magistrati, che in questi anni non ha mai voluto ricordare la figura di questo uomo di stato, lontano dalle correnti della magistratura, spesso in contrasto con i colleghi di quel “Porto delle nebbie” che è da decenni la sezione fallimentare del tribunale di Roma.
L’appello del figlio: «Chi sa parli»
«Vorrei avere almeno la possibilità di fare un funerale a mio padre» dice a Linkiesta Lorenzo, il figlio del giudice che ha acquistato il 2 luglio del 2014 mezza pagina sul Corriere della Sera di Roma per ricordare e chiedere che «chi sa, ed ha mantenuto il silenzio fino ad oggi, trovi la forza di raccontarci la verità: noi continuiamo ad aspettare, e non smetteremo mai di cercarlo». Repubblica, il quotidiano di Eugenio Scalfari e Ezio Mauro, invece ha rifiutato per policy di non pubblicare l’annuncio a pagamento. La storia di Adinolfi è per certi versi quella del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Uomini di stato lasciati soli, abbandonati al loro destino solo per il lavoro che svolgevano. «Mia madre diceva spesso a mio padre di non esporsi sul lavoro, ma il suo senso del dovere e di giustizia è sempre stato troppo importante» continua Lorenzo che all’epoca aveva 16 anni e che ricorda ancora le giornate prima della scomparsa tra le telefonate del padre in procura di Milano per parlare con il pm Carlo Nocerino del crack Ambra Assicurazioni come la certezza che il padre non volesse scappare da nessuna parte. In particolare Lorenzo, avvocato romano, ricorda gli anni di ricerche, le lettere anonime, le dichiarazioni dei pentiti che hanno permesso di aprire nuove inchieste che hanno portato a evidenziare che Paolo Adinolfi è scomparso per il lavoro che ha svolto da magistrato. «La nostra speranza è che qualcuno che sa voglia parlare e raccontare» conclude il figlio del magistrato romano.
Del caso si sono occupati in questi anni i quotidiani, la magistratura (in particolare la procura di Perugia con il pm Alessandro Cannavale ndr) e soprattutto la trasmissione televisiva Chi l’ha visto che ha ricostruito i passaggi delle inchieste, gli attori e i protagonisti di una storia che sembra uscita da un romanzo di Graham Green. Adinolfi, all’epoca della scomparsa giudice della Corte d’appello di Roma, era stato per quindici anni alla sezione fallimentare del tribunale capitolino. Negli ultimi tempi gli avevano revocato alcuni incarichi. Attriti da colleghi si disse, ma c’è chi sospetta tutt’ora che Adinolfi avesse scoperto qualcosa di più su come funzionava quella che una volta chiamavano appunto porto delle nebbie, tra magistrati civili corrotti, sentenze concordate e insabbiamenti. E c’è chi dice che Adinolfi fosse pronto a tirare fuori i nomi. Tra gli scandali di cui si era occupato il crack della Cascina Valadier che portò Giuseppe Ciarrapico, ex re delle acque minerali, ex presidente della Roma Calcio poi coinvolto pure nello scandalo del Banco Ambrosiano, a una condanna a quattro anni di carcere per bancarotta. Ma c’era molto altro, tanto che nei giorni precedenti a quel drammatico 2 luglio aveva contattato appunto la procura di Milano per discutere di indagini anche sul fallimento della Ambra Assicurazioni. E come riporta il sito dedicato a Borsellino, secondo quanto riferito dal magistrato Giacomo De Tommaso, «Adinolfi avrebbe confidato il timore di essere seguito e spiato».
Sabato 2 luglio del 1994, Adinolfi, dopo essere uscito di casa dicendo che sarebbe rientrato per l’ora di pranzo, si sarebbe recato intorno alle 9.00 presso la biblioteca del Tribunale Civile di Roma in viale Giulio Cesare. Il bibliotecario Marcello Mosca ha sostenuto di aver visto il magistrato in compagnia di un uomo di 30-35 anni, di media statura e ben vestito. Sulle generalità di quest’uomo il buio è assoluto. Dopo aver spedito un vaglia di 500mila lire per la moglie, fatto mai del tutto compreso, lascia la macchina, una Bmw320, parcheggiata nei pressi del Villaggio Olimpico, vicino a un parco. Da lì, secondo le ricostruzioni degli investigatori e delle testimonianze dell’epoca, si sarebbe diretto verso casa della madre, dove aveva anche il suo studio, prendendo l’autobus, la linea 3 dell’Atac. Ma dall’anziana mamma che abitava nel quartiere Parioli, Adinolfi non arriverà mai. Sarà lei la prima a segnalare alla famiglia di non averlo visto. Le ricerche inizieranno dalla mezzanotte dello stesso giorno.
I primi lanci di agenzia sulla vicenda sono del pomeriggio del 3 luglio, come tra i primi servizi sui telegiornali si segnala quello all’ora di pranzo del 4. Le ricerche sono a tappeto. Si ricostruisce la vita del magistrato, i suoi spostamenti, le ultime indagini, si indaga a tutto campo. Ma non ne esce niente. Sono le settimane dei mondiali di calcio negli Stati Uniti. Quel 2 luglio la Spagna batterà la Svizzera per tre goal a zero, mentre l’Italia vincerà il 5 contro la Nigeria dopo i tempi supplementari con una doppietta di Roberto Baggio. Il Paese si interessa di altro e la storia scivola via. Dopo 36 dalla scomparsa, intanto, le chiavi dell’auto e di casa vengono ritrovate nella cassetta delle lettere a casa. C’è chi dice di averlo visto in treno, per alcuni mesi si parla di allontanamento volontario. La procura di Roma non si muove, mentre la moglie di Adinolfi, Nicoletta Grimaldi, ha spiegato diverse volte che il marito avrebbe confidato ad un vecchio amico di avere acquisito prove e documenti che avrebbero potuto per il loro “scottante” contenuto far “crollare” il Tribunale di Roma.
Il pentito Elmo e la Banda della Magliana
Nel 1996 si muove qualcosa. Come ricorda Michele Gambino su Left, «il pentito Francesco Elmo, quarantenne faccendiere siciliano, coinvolto in un gigantesco traffico di materiale nucleare, armi e titolo, viene arrestato nell’operazione “Cheque to cheque”». È un’inchiesta dove c’è di tutto. Camorra, massoneria, servizi segreti, il Sismi e il Sisde, riciclaggio di denaro sporco. Siamo in piena epoca di tangentopoli, il sistema Italia sta per essere ribaltato come un calcino. Elmo riempie quattordici pagine di interrogatorio. Parla del suo rapporto con Mario Ferraro, un colonnello del Sismi trovato impiccato pochi mesi prima. Parla di Adinolfi e del maresciallo sempre del Sismi Vincenzo Li Causi, ucciso durante una sparatoria a Mogadiscio, il 12 novembre 1993, nome quest’ultimo emerso pure nell’omicidio di Ilaria Alpi. Elmo è preciso, dice: «Ferraro e Di Maggio gli dissero che a proposito della morte del giudice Adinolfi, che i deviati dei servizi, tra questi pure il Martinelli, erano in qualche modo i responsabili della sua morte». E poi: «Mi aggiunsero (Ferraro e Di Maggio ndr) che i personaggi su riportati in realtà operavano anche con società fantasma in compravendita di immobili e di strani movimenti di compravendita di società in procinto di fallimento con notevole influenza nelle sezioni fallimentari del tribunale di Roma, dove Adinolfi aveva un ruolo importante. Secondo il Di Maggio e il Ferraro, Adinolfi sarebbe stato ucciso perché aveva scoperto questi strani traffici».
A compiere materialmente l’omicidio sarebbe stata la Banda della Magliana, che in quegli anni veniva usata dai servizi per il lavoro sporco. La vicenda porta appunto all’Ambra Assicurazione, piccola società milanese, di cui si può leggere nel dettaglio un articolo di Michele Imperio. Del caso Ambra ne aveva parlato anche «il collaboratore di giustizia Michele Di Ciommo che fin dal 1979 era stato il notaio di Enrico Nicoletti, il cassiere della della Magliana già «agente dei Servizi Segreti, ivi introdotto fin dai tempi antichi dal presidente della repubblica Giovanni Leone. Di Ciommo parlò di presunte complicità eccellenti nel crac da 130 miliardi della Ambra assicurazioni, complicità che — secondo lui — coinvolgevano anche due Magistrati del Tribunale di Roma (i giudici Catenacci e Pelaggi) e finivano con l’intrecciarsi con le indagini sulla finanza nera, che anni prima aveva ssassinato i giudici Mario Amato e Vittorio Occorsio». Storie che si rincorrono, vicende che sono rimaste solo carta nei tribunali. La procura ha cercato persino il cadavere di Adinolfi tra le fondamenta di villa Osio, la casa di Nicoletti, ma non è stato trovato nulla. L’inchiesta su Adinolfi è stata archiviata nel 1997 a Perugia. C’è ancora chi aspetta la verità.