“Tyrant”, il Padrino del Medio Oriente

“Tyrant”, il Padrino del Medio Oriente

O “boiata” o prodotto di culto. Ma possibile che la via di mezzo non esista? Tyrant, con queste premesse, finisce inevitabilmente per cadere nella prima categoria: dopo il pilot andato in onda settimana scorsa in America, la critica statunitense è stata impietosa. Bocciato quasi all’unanimità (fa eccezione per il New York Times che l’ha definito «well done» e «enjoyable», nonostante – si è apprestato a dire – una sotto-trama che fa acqua in più punti). Insomma la nuova produzione di FX ideata da Gideon Raff (che ha firmato la serie israeliana Prisoners of Wars – da cui è tratta la versione statunitense Homeland) e realizzata da Howard Gordon e Craig Wright (Homeland, 24) ha sollevato sin da subito un polverone di critiche. Polemiche nate a priori per la decisione di girare uno show sul mondo arabo nello Stato ebraico Israele e proseguite a posteriori con la messa in onda.

Diciamolo chiaro: in un certo senso le diatribe sono fondate perché la premessa di mostrare le differenze culturali tra Oriente e Occidente si è subito trasformata in un vortice di stereotipi, dove il mondo arabo appare brutto e cattivo e l’unico personaggio dalle origini medio-orientali a suscitare empatia e simpatia è quello “occidentalizzato”, ovvero quello scappato dalla terra natia a 16 anni per vivere il fantomatico sogno americano.

Ad Abbudin, Paese immaginario che da subito viene paragonato alla Siria, alla Libia, all’Egitto e a tutte le altre nazioni che hanno vissuto la primavera araba, la violenza regna sovrana. Il presidente-dittatore obbliga i figli adolescenti a uccidere i dissidenti per strada, i potenti stuprano le donne che si trovano sotto tiro (obbligando marito e figli ad assistere alla scena), i regolamenti di conti si fanno a suon di cazzotti e colpi di pistola. E poi la copertura di facciata: lusso estremo e ville sontuose, piene di sotterranee che nascondono malefatte e delitti.

Con un preambolo del genere non stupisce che il CAIR, Council on American-Islamic Relations, abbia battuto i piedi: «nella puntata pilota – ha detto il responsabile della comunicazione – la cultura araba musulmana è priva di qualsivoglia qualità redentrice e viene rappresentata da terroristi, bambini assassini, stupratori, miliardari corrotti e impotenti vittime femminili. In Tyrant anche gli arabi musulmani ‘buoni’ sono cattivi». Certo, negli occhi e nella mente dei produttori questi villain immaginari hanno connotati reali, siano essi la reincarnazione dell’iracheno Saddam Hussein, la personificazione del siriano Bashar al-Assad o quella del libico Muammar Gheddafi, i cui nomi vengono persino menzionati nell’episodio d’apertura. Eppure non basta: il fatto di aver assegnato alla dittatura militare un nome fittizio (Abbudin, appunto) diventa il pretesto per leggere una critica generalizzata che coinvolge in egual misura tutti i Paesi Medio-orientali.

Questa introduzione era doverosa: se si legge Tyrant come una serie politica e contemporanea, la bocciatura è dietro l’angolo. Eppure Tyrant funziona se la si considera un dramma familiare, se la si denuda del suo contesto politico e la si vive come un grande lotta interna a una famiglia patriarcale: da questo punto di vista lo show si prefigura come una sorta di Padrino nel Medio Oriente, un Dallas politicizzato, un Sons of Anarchy sullo sfondo di un Paese in rivolta. Insomma: non sarà un cult ma se lo show riesce a far prevalere le relazioni sulle azioni, se riesce a soffermarsi sui giochi di potere interni, si potrebbe confermare una serie godibile e riflessiva in un’estate ricca di show apocalittici e adrenalinici.

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