Mentre ero in fila per entrare a vedere Bullets Over Brodway , il musical scritto da Woody Allen e approdato a Broadway da poco più di sei mesi, ma che già aveva visto la luce nella sua versione non musicata, non avevo idea di chi sarebbe stato il protagonista, ma avevo in testa una storia di evoluzione darwiniana che a posteriori si sarebbe rivelata premonitrice.
Charles Darwin, nella sua esplorazione del Madagascar, si era imbattuto in un’orchidea dall’ovario lungo undici pollici — si chiama Angraecum sesquipedale, nel caso qualcuno se lo stesse veramente chiedendo. Darwin suppose che doveva esistere un insetto, una farfalla, in grado di impollinare quella pianta e quindi dotata di una spiritromba (la “proboscide” che le farfalle usano per raggiungere il nettare) abbastanza lunga da arrivare nel fondo dell’ovario. Dopo anni di presunzioni, gli entomologi Rotschild e Jordan confermarono l’esistenza di Xantopan morgani praedicta, una falena che corrispondeva esattamente alla descrizione di Darwin e che, infatti, era l’unica impollinatrice dell’orchidea. Praedicta, appunto, perché annunciata come responsabile dell’esistenza del fiore, così come l’esistenza del fiore è responsabile della vita della farfalla. Circa a metà strada verso l’ingresso del teatro ho scoperto che il protagonista di Bullets Over Broadway è Zach Braff. La mia Xantopan morgani.
Gli indizi utili per stabilire a priori la carriera di Braff affondano le proprie radici nelle sue origini geografiche. Il New Jersey — l’ho già affermato in altre occasioni — è un incubatore naturale di talenti artistici e di casi clinici. In entrambi i casi c’è poco da fare per ostacolare il corso degli eventi: i primi sono destinati a una particolare grandezza autoriale come i secondi sono destinati a rovinare la nomea dello Stato che vivrebbe di niente assoluto se non fosse per Atlantic City. Braff è l’emblema del figlio del Jersey, cresciuto nella culla della generazione di attori nati tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ’80. Carismatico, disponibile con le schiere di fan, alla costante ricerca del nuovo mezzo che conduca alla perfezione. Una macchina progettata per il miglioramento delle prestazioni, apparizione dopo apparizione, e sempre e comunque in grado di mettere a proprio agio l’interlocutore e infondere una calda sensazione di familiarità nel pubblico pagante. È esattamente quel genere di attore che dal Jersey passa a New York City, la vive a tal punto da diventare il riflesso della città e riportarla nelle parti che mette in scena e in quelle che scrive — e nelle foto di matrimonio altrui — e poi non se la scrolla più di dosso, per quanto Hollywood ci si accanisca. Mantenendo l’imbarazzo originale, quello del sorriso a mezz’asta che ha chi si è caricato sulle spalle la provincia a ogni provino. Per finire a interpretare Allen come se niente fosse, come se fosse tutto capitato, predetto ma non atteso, dovuto. Come se non fosse mai la sua, la faccia nello schermo.
Se devo trovare un punto di partenza, il momento in cui Braff ha cominciato a rotolare verso dove si trova oggi — cioè più o meno dove sapeva che sarebbe arrivato, senza mai ammetterlo ad alta voce — è nell’attimo in cui ha scaldato la voce e messo in pellicola l’origine del suo immaginario: Garden State . C’è tutto il disfattismo e l’imperfezione di cui è capace, quell’autoironia grezza che poi ha imparato ad affinare e che proprio per questo — alla sua seconda volta da autore per il cinema — ha smesso di essere la vera proiezione di sé, trasformandosi in un pezzo d’autore consapevole. Lo sguardo di chi fissa l’abisso era già affiorato in qualche puntata di Scrubs, ma mescolato a una comicità demenziale che Braff lasciava correre libera nella scrittura di un prodotto ben definito. Che avrebbe cambiato la televisione, certo, che avrebbe dato una mano di profondità alla sitcom, ovvio, ma che in fondo doveva rispondere a canoni tracciati. Davanti o dietro la macchina da presa di Scrubs, Braff era l’istrione in potenza, aveva la stessa malinconia di Garden State da qualche parte, ma senza la libertà di autocommiserazione che lo ha trasformato. L’abisso c’è davvero, nella pellicola del 2004, e lui ci guarda dentro. C’è davvero il New Jersey e la dannazione della California per chi gira in tondo e non raggiunge l’obiettivo. L’andare e tornare e il non riuscire mai a fermarsi, una punta di maledizione. «Il Jersey è un personaggio del film e gioca in dualità con uno stato mentale. Il giardino è dove tutto comincia, cose del genere», cose del genere, senza troppi fronzoli. È lì che è cominciato tutto e, anche se Braff deve la sua affermazione alla televisione, è quello che ha tenuto in serbo per tutto il tempo della sua formazione.
Chi ha seguito abbastanza attentamente Scrubs, si deve essere reso conto per forza di cose che la straordinaria forza accentratrice di Braff andava ben oltre la sua bravura. È quello che riempie chi è costantemente sottoposto a un flusso travolgente di idee. «Zach continuava a cambiare le scene, ma noi quasi non ce ne rendevamo conto perché quello che metteva era al contempo estremamente sottile e così perfetto da non lasciare alternative» ha detto Sarah Chalke nel corso di un’intervista per Hollywood Reporter di qualche anno fa. «Chi divideva il set con lui doveva essere suo amico, non soltanto un collega. Doveva arrivare a capirlo perché altrimenti si sarebbe trovato tagliato fuori. Non che lui lo permettesse».
Wish I Was Here , l’ultimo film scritto e diretto da Braff, uscito nelle sale statunitensi qualche giorno fa e ancora in cerca di un distributore per l’Italia — mentre scrivo, ma le cose potrebbero cambiare per voi che leggete — è la prova di quanto sia disposto ad arrivare al largo della sua creatività per fare quello che gli piace. È il prototipo di un’industria che si appoggia a tutte le piattaforme possibili ed è pronta a superare gli ostacoli di produzione. Wish I Was Here è stato finanziato tramite crowd founding, e questa è cosa nota. Quello a cui non è probabilmente pronto il pubblico è un prodotto completo e rotondo, maturo ed equilibrato quanto la tempra del suo creatore. Quanto solo un progetto cresciuto e affinato in una mente fertile, nell’entusiasmo prima ancora che nella professionalità. Se quello che l’industria chiede è la capacità di cavarsela da soli, Braff è armato e pronto alla carica. Se quello che ci vuole è un estro innato su tutta la linea d’intrattenimento, solo un figlio del Jersey caduto dalla parte giusta dell’albero può averlo.
C’è una scena de Il laureato, in cui Dustin Hoffman affonda nella piscina di famiglia indossando una muta da sub e un’espressione neutra che incarna tutto l’imbarazzo di una generazione nei confronti di chi l’ha messa al mondo. Il tono su tono di Garden State è la stessa cosa, trent’anni dopo, verso quella stessa generazione imbarazzata che ora si trovava nella posizione di infondere l’imbarazzo. Che sia stato Braff a veicolare per primo questo sentimento è giusto, semplicemente. Quanto è giusto che abbia poi dimostrato la tenacia necessaria a pensare, scrivere, girare, recitare e distribuire il sui secondo film. Giusto quanto la gamma di emozioni che filtra dalla sua faccia pulita, che sembra sbattuta sul collo di uno qualunque. Giusto quanto il momento in cui compare dal fondo di un palco di Broadway, recita e canta Allen come se Allen stesso gli avesse insegnato a recitare e cantare. Come uno che sta seguendo il proprio destino, vada come vada, sia anche quello di tornare nel Jersey.