Tratto dall’ebook «Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione» di Ispi, scaricabile gratuitamente qui.
L’evoluzione del jihadismo in Italia è caratterizzata da una parabola alquanto diversa rispetto alla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale. Storicamente, l’Italia fu uno dei primi paesi europei a essere interessato da una presenza jihadista relativamente forte già nei primi anni Novanta, dato l’attivismo di vari network di origine nordafricana. Tuttavia, verso l’inizio degli anni Duemila, quando la maggior parte dei paesi europei dovette confrontarsi con una crescente minaccia posta in essere da network jihadisti tradizionali (cioè stranieri) e autoctoni (i cosiddetti “homegrown”), la situazione in Italia era relativamente tranquilla.
Questo apparve legato a due fattori. In primis, la pressione operata dalle autorità italiane nei confronti di network strutturati smantellò o obbligò qualsiasi gruppo potenzialmente jihadista a diminuire l’intensità delle proprie attività. Al tempo stesso, al ruolo ridotto delle strutture tradizionali non corrispose una crescita di network autoctoni. Ancora nella prima decade del Duemila le autorità italiane, infatti, non avevano rilevato la presenza delle forme di radicalizzazione jihadista autoctona vista con crescente frequenza in Europa.
Il fallito attentato suicida perpetrato dal cittadino libico Mohammed Game a Milano il 12 ottobre 2009 è considerato come un evento spartiacque. Nella Relazione al Parlamento del 2009 la comunitàd’intelligence indicava nel caso la conferma di un fenomeno che si era temuto da anni, cioè l’«improvvisa attivazione operativa di soggetti presenti sul territorio nazionale che, al di fuori di formazioni terroristiche strutturate, elaborino in proprio progetti ostili, aderendo al richiamo del jihad globale». È discutibile se Game possa essere considerato un jihadista autoctono “puro”. La sua radicalizzazione avvenne in Italia, ma giunse nel nostro paese solo in età adulta. In ogni modo, anche se non nella forma più pura, il caso Game fu indubbiamente la prima forte indicazione dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia.
Da allora si sono registrati alcuni casi dalle caratteristiche pienamente autoctone:
- Nel marzo 2012 la Digos di Brescia arresta Mohammed Jarmoune, un ventenne di origini marocchine cresciuto in Italia, sospettando stesse pianificando un attacco contro la comunità ebraica di Milano. Nel maggio2013 Jarmoune fu condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per aver diffuso materiale jihadista con fini di terrorismo. Date le sue caratteristiche (cresciuto e radicalizzato in Italia, molto attivo su internet, non connesso ad alcun gruppo), Jarmoune può essere considerato il primo caso “puro” di jihadista autoctono in Italia giudicato da un tibunale.
- Un’inchiesta connessa al caso Jarmoune (Operazione Niriya), terminata nel 2012, evidenzia l’esistenza di un network di simpatizzanti del jihad italiani, molti dei quali convertiti, sparsi per il territorio nazionale, che traducevano e diffondevano testi jihadisti su vari blog, forum online e social network.
- Nel giugno 2013 le autorità arrestano Anas el-Abboubi, giovane di origini marocchine cresciuto nel bresciano. L’uomo, che aveva cercato di creare la propaggine italiana del gruppo Sharia4, fu accusato di pianificare attacchi a Brescia. Assolto dal tribunale del riesame, dopo breve el-Abboubi si recò in Siria, dove pare si sia unito a un gruppo legato allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, il ramo locale di al-Qaeda.
- Nel giugno 2013 un convertito all’islam di Genova, Ibrahim Giuliano Delnevo, fu ucciso in Siria mentre combatteva insieme a una milizia jihadista.
Questi casi paiono chiaramente indicare che il fenomeno del jihadismo autoctono, a lungo visibile in altri paesi europei, sia arrivato in Italia, anche se su scala ridotta. La causa di tale ritardo è legata al fatto che nel nostro paese il fenomeno migratorio da paesi a maggioranza islamica è iniziato su larga scala solo nei tardi anni Ottanta e nei primi anni Novanta, cioè venti o, in alcuni casi, trenta o quarant’anni dopo paesi economicamente più avanzati quali Francia, Germania, Paesi Bassi o Gran Bretagna. La prima ondata di musulmani della seconda generazione, nati o cresciuti in Italia, è perciò entrata nell’età adulta da poco. Fra le centinaia di migliaia di figli di immigrati musulmani cresciuti in Italia e le migliaia di convertiti italiani, solamente un numero statisticamente insignificante, ma rilevante dal punto di vista della sicurezza, da identificare, come si vedrà, in poche centinaia, adotta un’ideologia fondamentalista.
Il panorama attuale del jihadismo in Italia è estremamente frammentario ed eterogeneo, caratterizzato dalla presenza di vari attori dalle caratteristiche marcatamente diverse. L’arrivo del jihadismo autoctono non significa che network “tradizionali” non siano più presenti. Molti di loro sono stati fortemente indeboliti dalle ondate di arresti ed espulsioni eseguite dalle autorità italiane nel corso degli ultimi quindici anni, ma sono ancora molto attivi (in particolar modo in attività logistiche).
Al tempo stesso piccoli nuclei e soggetti isolati con caratteristiche tipicamente autoctone sono sempre più attivi. È impossibile fornire numeri esatti, ma solo delle stime sommarie. Si può ritenere che i soggetti attivamente coinvolti in questa nuova scena jihadista autoctona siano una quarantina/cinquantina. Allo stesso modo, si può stimare che il numero di coloro che in vario modo e con vari livelli d’intensità simpatizzino con l’ideologia jihadista sia di qualche centinaio. Si tratta, in sostanza, di un piccolo insieme di soggetti dalle caratteristiche sociologiche (età, sesso, origine etnica, istruzione, condizione sociale) estremamente eterogenee che condivide la fede jihadista. La maggior parte di questi soggetti interagisce su internet con altri dello stesso credo in Italia (si può infatti dire che perlopiù si conosca tramite vari social network su internet) e all’estero. Molti di essi vivono nel nord del paese, in grandi città quali Milano, Genova e Bologna ma anche in piccoli paesi di campagna, alcuni si sono anche stabiliti al centro e al sud.
Va chiarito che la maggior parte di questi soggetti non è coinvolta in alcuna attività violenta, bensì limita la propria militanza a un’attività spesso spasmodica su internet, mirata a pubblicare e disseminare materiale che spazia dal puramente teologico all’operativo. Sebbene questi impegni possano rappresentare una violazione dell’articolo 270 quinquies del Codice penale (Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale), tanti tra gli aspiranti jihadisti autoctoni italiani sono proprio questo, “aspiranti” che non compiono alcuna azione violenta. Tuttavia, come i casi di Jarmoune, el-Abboubi e Delnevo hanno dimostrato, a volte alcuni membri di questa scena informale compiono – o perlomeno cercano di compiere – il passaggio dalla militanza da tastiera a quella nella vita reale.
Questa scena possiede alcune caratteristiche comuni (anche se eccezioni sono sempre possibili):
- I suoi membri tendono a operare al di fuori dell’ambito delle moschee italiane, dove le loro idee non trovano terreno molto fertile.
- Non paiono esserci contatti tra loro e i network jihadisti tradizionali affiliati a gruppi della galassia di al-Qaeda, che tendono a vedere i nuovi militanti con diffidenza.
- Internet è la loro principale (se non unica) piattaforma operativa.
- Talora alcuni di essi passano all’azione, che può consistere in pianificare attacchi in Italia o viaggiare all’estero per unirsi a un jihad. Quelli che optano per questa seconda via spesso cercano dei facilitatori che possono fornir loro gli agganci giusti con gruppi strutturati operanti al di fuori dell’Europa. Queste dinamiche di collegamento tra aspiranti jihadisti italiani e gruppi strutturati sono svariate e difficili da ricostruire.
- Seppur costituiscano degli elementi che non vanno ignorati, ci sono scarse indicazioni che discriminazione e mancanza d’integrazione socio-economica siano le ragioni principali per la radicalizzazione di jihadisti autoctoni italiani. Ogni caso va comunque analizzato a sé.
Le conseguenze dell’arrivo del jihadismo autoctono in Italia sono di duplice portata. La prima conseguenza è operativa. Nuclei autoctoni o, ancor più, lone actor sono spesso di difficile identificazione in quanto non operanti in seno a una struttura le cui comunicazioni e attività possono essere più facilmente monitorate dalle autorità. L’articolo 270 quinquies del Codice penale fornisce un ottimo strumento che è stato utilizzato più volte per arrestare jihadisti autoctoni attivi su internet ben prima che avessero posto in essere attività concrete mirate al compimento di attacchi. Tuttavia il caso el-Abboubi ha dimostrato che l’applicazione dell’articolo può essere problematica. Il fenomeno pone dei limiti anche al frequente uso di espulsioni, uno dei mezzi preferiti delle autorità antiterrorismo italiane. A causa della rigorosa legislazione italiana in materia è possibile che alcuni jihadisti autoctoni, nonostante siano nati in Italia, non abbiano la cittadinanza italiana e siano perciò passibili di espulsione. Ma altri, a partire dai convertiti, sono cittadini italiani a pieno diritto e perciò non sanzionabili con l’espulsione.
La seconda conseguenza dell’arrivo del fenomeno in Italia è a livello socio-politico ed è probabilmente ancora più preoccupante. Replicando una dinamica vista in varie occasioni in vari paesi europei, l’eventualità che un musulmano cresciuto in Italia possa compiere un attacco in Italia avrebbe ripercussioni enormi su un dibattito a livello nazionale su questioni come l’immigrazione e la presenza dei musulmani in Italia che sono già estremanente tese e altamente politicizzate.
*Lorenzo Vidino, Ph.D., è uno dei massimi esperti di islamismo e violenza politica in Europa e Nord America.