’O pernacchio“Cronache di Gerusalemme”, di Guy Delisle

“Cronache di Gerusalemme”, di Guy Delisle

La prima volta che ho visto Cronache di Gerusalemme di Guy Delisle è stato qualche anno fa, a una fiera del fumetto. Ricordo la copertina bianca, la scritta nera, il disegno delle mura di Gerusalemme e quello di un uomo, stilizzato e di profilo, chino su un taccuino. In qualche modo, mi attirava. In qualche modo già questo — la copertina — bastò per convincermi che si trattava di un capolavoro.

Conoscevo già Guy Delisle: è un fumettista franco-canadese che fa graphic journalism. Sì. Giornalismo grafico, se preferite la versione letterale in italiano. Significa che non si limita a scrivere, ma che disegna anche quello che vede e che vuole raccontare, cosa che ha fatto anche in Birmania e in Corea. Lo fa da quando segue sua moglie, che lavora per Medici senza frontiere, nei suoi viaggi di lavoro

Il Festival di Angouleme del 2012 incoronò Cronache di Gerusalemme “miglior opera” e ogni dubbio fu appianato: non era solo una mia impressione, Cronache di Gerusalemme era “davvero” un capolavoro, un gran fumetto.

Cronache di Gerusalemme è un diario, il diario di Guy Delisle che si trasferisce a Gerusalemme dopo che la moglie ha deciso di partire con i Medici senza Frontiere. In particolare Delisle va a vivere a Beit Hanina, quartiere est della capitale “ufficiosa” di Israele (ufficiosa perché per il resto del mondo la capitale è Tel Aviv), ex-zona palestinese (che per Israele è legale, per la Comunità Internazionale, invece, no). È un racconto a fumetti, essenziale ma estremamente — e terribilmente, certe volte — chiaro. Fa quasi paura. Paura se, oltre al tratto del disegno, state attenti anche alla sceneggiatura, a cosa dice. Ma soprattutto, come in questo caso: a cosa non dice.

Insomma, mea culpa. Avrei dovuto comprarlo prima. Avrei dovuto comprarlo prima che la questione israelo-palestinese tornasse alla ribalta. È un libro che non può assolutamente mancare nella libreria di ogni appassionato perché è l’ennesima dimostrazione che il fumetto è un’arte completa, che fa cultura.

L’arma migliore di cui dispone Delisle è l’ironia. La usa sempre, ovunque, per raccontare qualsiasi cosa, anche la più incredibile. I posti di blocco, i controlli, la differenza tra israeliani e palestinesi, e la condanna, non tanto sottile come si potrebbe pensare, del popolo “prescelto da Dio”. Il libro è diviso in capitoli o in sezioni se preferite: un po’, appunto, come un diario. Con un ordine cronologico sommario, dato per mesi, e diviso per aree tematiche. Si parla di una festa o di un quartiere. Si parla delle altre famiglie, degli organi internazionali presenti sul territorio (ma che, tirate le somme, è come se non ci fossero). E di una situazione anormale che, a furia di ripetersi, è divenuta normale.

Dipende – dipende da quello che Delisle vuole dire. Se c’è una tavola che mi ha colpito particolarmente è quella in cui viene raccontato di un posto di blocco fuori Gerusalemme, dove durante il ramadan i musulmani devono mettersi in fila e aspettare ore intere, sotto il sole, per andare a pregare nelle loro moschee più sacre. E ci sono questi soldati israeliani, divisi tra polizia, esercito e truppe speciali, che «non avranno più di vent’anni», come scrive Delisle, e che alla minima avvisaglia di problemi, «anche se armati fino ai denti», corrono ai ripari dietro le mura.

Le mura non solo quelle di protezione, ai posti di blocco, ma anche quelle che in pochissimi anni ha eretto Israele. C’è anche quest’altra vignetta che mi ha spiazzato. Lo preciso sempre: il disegno non è realistico. Ma forse proprio per questo mi ha colpito di più. C’è una macchina, su cui si trova Delisle e le sue guide, e ci sono le mura dello Stato di Israele. «Non immaginavo fossero così alte», scrive Delisle. E nemmeno io.

Ma al di là di questi dettagli (che dettagli, però, non sono), quello che più piace, convince e intriga del libro di Delisle sono i suoi racconti della quotidianità. Quando, per esempio, vuole portare i suoi figli al parco giochi — che non c’è a Beit Hanina — o quando scopre “le colonie”, piene di centri commerciali, nuove, attrezzatissime e funzionanti. O quando la guerra influenza la sua giornata, e quando le sue giornate diventano tutte uguali, a causa, appunto, della guerra.

È il racconto umano, più che quello dei fatti, a rendere quest’opera un capolavoro a tutto tondo. Una rappresentazione degna, fedele, decisamente migliore di tanti articoli di giornale o di servizi alla tv di cui, tra parentesi, si parla. Una differenza nell’informazione, dentro e fuori confine, che ha dell’incredibile: Israele non ha una sola faccia. Viene criticata, anche internamente, per alcune sue scelte, per il razzismo — viscerale talvolta — nei confronti degli arabi. Il suo governo non è un governo di parte, ma un governo di “sopravvissuti”: che per resistere, per governare, deve prendere le sue decisioni in base all’umore della popolazione.

È assurdo, e Delisle non lo nasconde, il trattamento che ricevono gli arabi, che non hanno mai — prima della migrazione di massa — creato problemi agli ebrei residenti in Palestina. Come è assurdo il comportamento dei cristiani e delle loro comunità, l’ortodossia e la presenza di gruppi di “ebrei di estrema destra”, di cui la televisione israeliana parla senza problemi.

Magari risulta difficile crederci. Magari, come sottolinea sempre Delisle, per noi è assurdo che ci siano tante sfumature (e quasi tutte negative) nello stato di Israele. Perché a noi, dai nostri media, viene detta una sola cosa: si prendono due parti, Hamas e Israele, e le si fanno combattere. E poi si dice chi ha ragione e chi ha torto, senza tenere conto veramente di quello che succede. Siamo insomma schiavi della “nostra” informazione, un’informazione che è sommaria, di parte, pregiudizievole. E questo viene messo in evidenza da una graphic novel — questa graphic novel. I colori del deserto, gli sbuffi di verde delle cartine (e non degli alberi o dell’erba) e montagne di spazzatura ovunque.

Israele non sembra poi così tanto una terra promessa. Specie Gerusalemme, la sua capitale “ideale”. Che da “crocevia delle religioni”, come insegnano a scuola, viene ridotta ad un ammasso informe di luoghi sacri e di mura alte decine di metri, reti protettive per gli arabi, e soldati ragazzini, poco più che maggiorenni, che combattono una guerra di cui non sono responsabili e di cui, probabilmente, sanno poco o nulla.

Cronache di Gerusalemme finisce com’è iniziato, con un aereo in volo. Finita la missione della moglie, la famiglia Delisle torna a casa. Non c’è alcuna speranza, alla fine. Nessun messaggio ottimistico. C’è solo un paese diviso a metà e una guerra che infuria senza sosta. Senza né vinti, né vincitori. Solo vittime.