Circolano voci di golpe a Baghdad dopo la decisione del neo-presidente iracheno, il curdo Fuad Masum, di non dare l’incarico per formare un nuovo governo al premier uscente Al Maliki ma ad Haider Al Abadi, altro politico esponente della maggioranza sciita del Paese ed ex ministro. Al Maliki ha denunciato il presidente per violazione della Costituzione, e un tribunale gli ha dato ragione. Ora si teme che i suoi sostenitori possano ricorrere alla violenza. Ma non è questo – almeno secondo la percezione della comunità internazionale – il più grave dei problemi che affligge l’Iraq: i fanatici islamici sunniti dell’Isis stanno impegnando le milizie curde nel nord del Paese in uno scontro violento. Si parla di stragi di civili appartenenti alle minoranze religiose cristiana e yazida, mentre gli jihadisti starebbero guadagnando posizioni a sud di Baghdad.
Come ha raccolto tutta questa forza Isis? Diverse le risposte. Le armi pesanti e le ingenti risorse economiche ottenute conquistando Mosul e altre città. Il vantaggio tattico di potersi muovere tra due Stati nel caos (e le forze regolari irachene non si spingono fino in Siria e viceversa, mentre i guerriglieri sfruttano la porosità del confine); il probabile (anche se non ancora dimostrato) sostegno dell’Arabia Saudita. Ma più di tutti, pesa lo stato di debolezza di chi si oppone ai fanatici jihadisti.
L’esercito regolare iracheno che presidiava la regione di Niniveh si è dissolto ai primi scontri e le milizie curde non hanno armi pesanti o aviazione su cui poter contare. Alla debolezza sul campo si aggiunge poi anche quella politica: il premier uscente Al Maliki è percepito come settario, non ha aiutato i curdi quanto avrebbe dovuto in principio – con loro i rapporti erano tesi da quando hanno deciso di vendere il petrolio delle loro regioni in autonomia da Baghdad sfruttando un proprio oleodotto – e con la sua linea di scontro intra-religioso ha spinto le grandi tribù sunnite ad appoggiare l’Isil pur di opporsi a lui. Da quando è esplosa la minaccia dell’Isis (con la caduta di Mosul del 10 giugno), il premier iracheno è sembrato aspettare un intervento dall’esterno (più volte sollecitato) che indirettamente lo rinsaldasse al potere, mentre curdi, cristiani e altri venivano massacrati dai fanatici sunniti.
Ora che gli Usa hanno iniziato a bombardare via cielo le postazioni di artiglieria dell’Isis, per al-Maliki potrebbe essere troppo tardi: Washington ha dato appoggio alla decisione di Masum di dare l’incarico ad Al Abadi perché ricostruisca una parvenza di unità nazionale. Non va però sottovalutato l’appoggio che l’Iran – e indirettamente la Russia – potrebbero ancora garantire ad Al Maliki.
Se salvare le minoranze religiose dalle persecuzioni degli jihadisti non è sembrata una priorità per Al Maliki, altrettanto si può dire per gli Stati Uniti. A lungo hanno ignorato le richieste di intervento da parte del governo iracheno, in parte perché Al Maliki era diventato troppo vicino a Iran e Russia per poterlo aiutare senza secondi pensieri, in parte perché la linea di politica estera di Obama aveva nel disimpegno dall’Iraq uno dei suoi cardini.
La marcia indietro di questi giorni sta costando al presidente Usa feroci critiche da più parti e mina il suo consenso già in crisi. La potente macchina bellica americana viene usata col contagocce nello scenario iracheno e i primi bombardamenti coi droni non hanno impedito all’Isis di conquistare alcune cittadine difese dai peshmerga, le milizie curde.
Ora l’afflusso di armi e rifornimenti ai soldati curdi dovrebbe farsi più consistente, col contributo anche di Uk, Francia, Italia e altri. Ma i rapporti tra Usa e comunità curda non sono semplici: già ai tempi di Desert Storm fu lasciata alla mercé di Saddam dopo la parziale vittoria degli americani che non vollero però spingersi fino a Baghdad. Anche per non indispettire l’alleato turco, gli Usa storicamente sono sempre stati cauti – per usare un eufemismo – nel sostenere le ragioni dei curdi.
«Con un intervento consistente da parte degli Usa – più di quanto non sia stato fatto finora, probabilmente a causa delle resistenze interne – ritengo che l’Isis sarebbe costretto sulle difensive e se ne arresterebbe l’avanzata ma, anche se venisse militarmente sconfitto su tutta la linea, finché non si troverà una soluzione politica ai problemi dell’Iraq il terrorismo e l’insorgenza in generale continueranno a ripresentarsi, anche se con altri uomini e altri nomi», spiega Claudio Neri, direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi strategici.
«Nella prima fase dopo l’invasione americana si era già verificata una situazione simile con Al Zarqawi, poi eliminato nel 2006. Con il califfato di Al Baghdadi (leader dell’Isis) rischiamo di ripetere la storia. Il problema è che le cause di queste continue fiammate di terrorismo e violenza settaria hanno le radici nella inesistenza dello Stato iracheno: di fatto esistono diversi Stati corrispondenti ai diversi gruppi etnici: sunniti, sciiti e curdi. La convivenza si sta rivelando impossibile ma se davvero l’Iraq dovesse frantumarsi in tre entità statuali rischierebbe di esplodere l’intero Medio Oriente. La Turchia non potrebbe accettare la nascita di un Kurdistan iracheno vicino ai propri confini. L’Iran potrebbe tentare di egemonizzare la parte sciita dell’Iraq ma non tutti gli sciiti iracheni sono filo-iraniani, anzi, e la nuova entità irachena sunnita sarebbe a rischio di diventare un paradiso per jihadisti, avendo inoltre al confine la Siria in una situazione di caos e guerra civile. Senza contare l’effetto domino su tutti gli altri Stati».
Insomma non si può rinunciare a salvaguardare l’integrità dello Stato iracheno pur sapendo che è in buona parte la causa delle continue esplosioni di violenza settaria, spesso improntate al fanatismo islamico ed al terrorismo. O almeno questa sembra essere la linea degli Stati Uniti e dei suoi alleati. In questo quadro i civili sono vittime innocenti a cui nessuno, al di là delle dichiarazioni, attribuisce la priorità in un Grande Gioco che sembra essere tornato alle regole del XIX secolo.