Dieci canzoni indimenticabili di Woodstock

Dieci canzoni indimenticabili di Woodstock

La storia se la ricordano in pochi, ormai. Quella di Michael Lang, John P. Roberts, Joel Rosenman e Artie Kornfeld: sono quattro bobos newyorchesi che vivono l’onda del movimento hippie con la non deprecabile intenzione di guadagnarci due soldi. Lang, ad esempio, è l’ideatore del Miami Pop Festival del ’68, una specie di prototipo di quel che sarà la tre giorni pace amore e musica dell’agosto del 1969. Artie Kornfield è la sua spalla: assieme agli altri due, vogliono tirare in piedi uno studio di registrazione a Woodstock, Stato di New York, contea di Ulster. Da lì a organizzare un festival, il passo è breve, se non fosse che la gente del posto non ne vuole sapere di un’invasione hippie. Dopo un po’ di vicissitudini – da Woodstock a Orange e poi a Bethel, dalla tenuta dell’albergatore Elliot Tiber a quella dell’allevatore Max Yasgur – il festival di Woodstock (il nome rimase lo stesso) finalmente ebbe luogo.

Come tutte le cose grosse, Woodstock partì con mezzi scarsi e ambizioni modeste. Doveva essere un festival di provincia, roba da una decina di migliaia di persone al massimo, ma vendette 170mila biglietti in prevendita e sul prato di Bethel – a concerto dichiarato gratuito, per evitare guai – si ritrovarono infine 400mila persone per quello che oggi viene ricordato come il più grande e famoso raduno rock di sempre. 

Al netto di tutte le sovrastruttore socio-politiche gli sono state appiccate sopra, Woodstock è stato soprattutto un grandissimo concerto, con gran parte dei migliori musicisti rock, blues e folk dell’epoca, molti dei quali – pur in condizioni oggettivamente difficili – hanno apparecchiato performance leggendarie: da Carlos Santana agli Who, da Janis Joplin ai Jefferson Airplaine, dai Greatful Dead a Crosby, Stills, Nash e Young fino al climax assoluto dell’evento, l’inno americano scarnificato da Jimi Hendrix.

Ci fermiamo qui, che su evento come Woodstock, che le parole sono di troppo quando c’è la musica. E di parole, su quella tre giorni di quarantacinque anni fa, se ne sono dette sin troppe. Eccovi quindi, a nostro sindacabilissimo giudizio, le dieci perle di quell’evento, in ordine quasi casuale (l’ultima, che poi è la prima, ovviamente non lo è). 

Richie Havens, Strawberry Fields Forever
Cantante folk afroamericano dalla voce molto calda e dalla pennata vigorosa come una pala di badile, è lui ad aprire la tre giorni di Woodstock. Di quel concerto è noto soprattutto il brano Motherless Child, diventato per l’occasione Freedom, parola da lui ripetuta ad libitum per qualche minuto. Noi però abbiamo scelto questa stupenda versione di Strawberry Fields Forever dei Beatles, che a Woodstock non c’erano ma era come se ci fossero.
 

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Joe Cocker, With a little help from my friends
Se non vi piacciono i Beatles fate bene a chiudere subito sto articolo, che non fa per voi. Tuttavia, va oggettivamente ammesso che questa performance che chiude il concertto di Joe Cocker, il primo del terzo giorno, sarà ricordata come uno dei vertici emotivi di Woodstock e la seconda cosa per cui il vecchio Joe verrà ricordato dopo lo spogliarello di Kim Basinger in Nove Settimane e mezzo, cui ha gentilmente prestato la voce. 

Country Joe McDonald, Feel like I’m fixing to die rag
Country Joe McDonald non lascia traccia nella storia della musica, ma in quella di Woodstock sì. Il suo concerto, il primo giorno, non era nemmeno in programma, ma si decise di farlo suonare comunque, anche se la sua band non era ancora arrivata a Bethel. In quel concerto acustico, il buon Country Joe estrasse dal cilindro Feel like i’im fixing to die rag, l’inno anti-Vietnam per eccellenza della tre giorni. 

The Who, See me, Feel me
Il concerto degli Who fu il più lungo di tutto il festival. Il set iniziò alle quattro del mattino – pare che per motivi di soldi Pete Townshend è compagni non volessero salire sul palco – ma quando ci salirono furono incendiari come poche altre volte nella loro carriera. Il crescendo di See me, feel me avrebbe valso da solo l’attesa dei fan.

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The Band, The Weight
Non c’era Bob Dylan a Woodstock – ci sarebbe stato nel ’94, non la stessa cosa – ma c’era la sua band dell’epoca. Che, in spregio a ogni originalità, si chiamava per l’appunto The Band e pure essendo canadese, sprizzava americanità da tutti i pori. The Weight è la loro pietra miliare, l’unico brano che avremmo potuto scegliere: Take a load off, Fannie.

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Creedence Clearwater Revival, I put a spell on you
Non c’è sound of sixties senza di loro. E non ci può essere alcun ricordo del loro live che non preveda una delle più belle versioni  di I put a spell on you di Screamin Jay Hawkins, un bluesman nero che amava suonare circondato da teschi e feticci voodoo. Una canzone che – nomen omen – non portò molta fortuna al suo autore, ma moltissima a chi la interpretò dopo di lui da Nina Simone a Brian Ferry, passando, per l’appunto dai Creedence Clearwater Revival e dal loro concerto nella notte del secondo giorno.

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Jefferson Airplane, White Rabbit
La band di San Francisco chiuse la maratona nottura tra sabato 16 e domenica 17 presentandosi sul palco alle otto del mattino. Grace Slick presentò se stessa e i suoi sodali come dei “morning maniac”, in opposizione alla musica dura che aveva suonato tutta la notte e attaccò con Somebody to Love. Il punto più alto del concerto, tuttavia, fu White Rabbit, marcetta psichedelica dedicata ad Alice nel paese delle meraviglie, alle pillole che ti fanno diventare grande e a certi tipi di funghetti.

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Janis Joplin, Work me lord
Indubbiamente la miglior performance vocale di tutti e tre i giorni. Roba da gioco, partita, incontro, in un concerto che, va ricordato annovera al suo interno pezzi come Summertime o Piece of my heart. L’improvvisazione vocale sul «Don’t you leave me…» finale è semplicemente disumana

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Santana, Soul Sacrifice
Se non ci fosse stato Hendrix, Woodstock sarebbe stato ricordato per Soul Sacrifice di Carlos Santana e della sua band. E, soprattutto, per l’assolo del poco più che ventenne batterista Micheal Shrieve, che strabilia il pubblico con un assolo di batteria incredibile per velocità, precisione e intensità. Roba che fa impallidire persino i due ispiratissimi solo dell’ottimo Carlos e il groove di tutta la sua band. 
 

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Jimi Hendrix, Star Spangled Banner
Non c’è da aggiungere molto, no?

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