Nel 1991 oltre un detenuto su tre lavorava. A fine 2013 la percentuale era del 23%, ma oggi i carcerati sono il doppio rispetto a inizio anni Novanta. Più difficile dare un impiego a tutti, a maggior ragione con la crisi. L’associazione Antigone denuncia il taglio dei fondi per i prigionieri stipendiati dall’amministrazione penitenziaria e le difficoltà economiche e burocratiche delle aziende che li assumono dall’esterno. Per queste ultime lavora appena il 16% dei reclusi che hanno un’occupazione. Legacoopsociali, che riunisce 2.300 società, conferma che le imprese che vogliono entrare in carcere non hanno vita facile.
I dati del governo
L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che il lavoro fa parte del trattamento rieducativo e prevede che a ogni detenuto ne sia assicurato uno, «salvi casi di impossibilità». Il sito del ministero della Giustizia riporta le statistiche in materia a partire dal 1991: la percentuale più alta di prigionieri occupati risale proprio ad allora, quando era del 34 per cento. In ventitrè anni di rilevazioni semestrali il 30% è stato superato solo altre due volte, e i tre momenti di picco sono gli unici in cui la popolazione carceraria è scesa sotto le 40mila unità: meno detenuti ci sono, più facile è riuscire a farne lavorare una buona fetta. Dal giugno 2009 gli abitanti dei penitenziari non sono mai stati meno di 60mila, e dal 2008 – quando è scoppiata la crisi – gli occupati sono sempre stati sotto il 25 per cento. A fine 2013 i reclusi erano circa 62.500 e solo il 23% aveva un impiego.
Attivisti e aziende
Antigone è un’associazione «per i diritti e le garanzie nel sistema penale» nata a fine anni Ottanta. Gianni Torrente coordina il suo osservatorio sulle condizioni di detenzione. «Le possibilità economiche», dice, «fanno sì che la quota di detenuti lavoranti sia assolutamente minoritaria. Spesso i dati ministeriali non rappresentano bene le realtà, perché includono persone che magari sono impiegate poche ore al giorno e con un reddito minimo». All’interno delle carceri si può essere occupati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o a quelle di terzi, di aziende esterne. Il primo caso coinvolge la grande maggioranza degli “attivi”: a fine 2013 erano l’84%, e dal 1991 non si è mai scesi sotto l’81 per cento. «Per queste persone ci sono sempre meno soldi pubblici», spiega Torrente. «Per quelle assunte dalle imprese il problema è la crisi, che ha colpito molte cooperative. Negli ultimi anni diverse hanno chiuso. Per fortuna c’è un forte turnover: nel privato sociale nascono continuamente nuove iniziative, ma si tratta comunque di un ambito in difficoltà».
Una conferma arriva da Legacoopsociali, associazione che conta al suo interno circa 2.300 aziende, di cui un terzo impegnato nell’inserimento di “persone svantaggiate” come i detenuti. Di questo settore si occupa Giancarlo Brunato. «La crisi si è fatta sentire anche sulle coop di questo tipo, che hanno impostato la loro attività soprattutto sui rapporti con gli enti pubblici. Quando questi hanno iniziato a dover tagliare sono aumentati i problemi», spiega. Poi ci sono altri tipi di ostacoli. «Entrare in carcere è molto difficile, bisognerebbe sistematizzare un po’ la burocrazia. Le coop sociali hanno una preparazione specifica che le rende motivate, ma per aziende di altro tipo è più facile scoraggiarsi di fronte ai difetti della macchina amministrativa». Nel 2013 il capo del dipartimento amministrazione penitenziaria aveva proposto di abbassare gli stipendi dei reclusi per attirare le imprese. «Non mi pare il punto principale», dice Brunato. Secondo le norme attuali ai detenuti spetta un compenso pari ad almeno due terzi del trattamento previsto dal contratto collettivo di categoria.
Sgravi insufficienti
Gianni Torrente di Antigone è contrario a un taglio delle remunerazioni, «perché hanno un forte valore trattamentale. Il lavoro non deve servire solo a passare il tempo, ma anche a reinserire la persona. Il fatto che il detenuto sia considerato come un cittadino occupato fuori dal carcere, anche se con salario ridotto di un terzo, è un punto forte del nostro ordinamento, anche nel contesto europeo». Torrente conferma le difficoltà burocratiche delle aziende che vogliono impiegare carcerati. «I penitenziari italiani non sono mai riusciti ad attirare imprese che volessero investire. La quantità di documenti necessari e la lentezza delle procedure non è compensata dagli sgravi fiscali». Gli ultimi sono arrivati a fine luglio: 30 milioni per le società che assumono reclusi per almeno un mese. «Serve una riforma di tutto il sistema penitenziario. Il carcere può essere un miglior luogo di lavoro se è meno carcere, meno rigido, meno chiuso in se stesso. Bisogna usare i penitenziari in modo residuale, riducendo il numero di detenuti e aprendoli di più alla società esterna».
Cosa fanno al momento i prigionieri occupati? «Le attività più diffuse», dice Torrente, «sono le meno formative, come pulizie delle sezioni o opere di piccola manutenzione. Per fortuna ci sono anche realtà produttive portate avanti dal privato sociale con risultati positivi. Il punto è capire se questo tipo di esperienze può diventare di massa, per esempio coinvolgendo più detenuti in impieghi manifatturieri, che tipicamente richiedono più persone». Sul lavoro in carcere, come su altri ambiti, l’Italia potrebbe avere molto da imparare dal Nord Europa: «In particolare penso alla Scandinavia, che vanta pratiche efficaci soprattutto dal punto di vista dell’umanizzazione della pena. Per esempio hanno il regime delle “celle aperte”, spazi in cui impiegare i detenuti fuori dalla costrizione delle sezioni. Bisogna anche dire, però, che il nostro modello è un vero gioiello sotto il profilo normativo: le difficoltà si presentano nella messa in pratica». Di recente il ministro della Giustizia ha sottolineato che il tasso di recidiva scende molto tra i prigionieri occupati. Secondo Antigone su questo non ci sono dati scientificamente attendibili. Di sicuro la recessione non aiuta chi esce dal carcere con le migliori intenzioni, né chi deve restarci senza poter lavorare.