Mi piacciono gli scandali cinematografici. Un po’ perché sono un polemico, un po’ perché in genere sono le uniche cose in grado di rivelare la vera natura del film, degli interpreti e del suo pubblico. Grattano via la superficie opaca dell’industria e lasciano tutti — spettatori, professionisti e critici — a coprirsi la bocca con la mano, chiedendosi se il film in questione andava fatto, se andava fatto così e se non si sarebbe dovuto tagliare, sovvertire, cambiare, incendiare, oscurare. Il bello è che spesso le polemiche non cambiano proprio niente riguardo al destino della pellicola. Il pubblico decide, i critici criticano e l’industria continua indisturbata il suo corso.
Ci sono polemiche che si sviluppano attorno al niente, sono quelle che in genere coprono un film brutto o noioso. O reso brutto dalle troppe polemiche che ne hanno anticipato l’uscita — a un certo punto ho visto Nimph(0)maniac e vorrei non aver letto i giornali per i sei mesi precedenti per godermi quello che il film è veramente, sfortunatamente mi aspettavo una serie infinita di festini orgiastici e mi sono molto annoiato. Ci sono polemiche che mancano il bersaglio, e finiscono per trasformare un film bellissimo e delicato in un caso che non ha molto a che vedere con la storia. Fortunatamente, questo genere di polemiche si esaurisce in breve, specialmente se ci sono persone come il mio amico Aldo Fresia , capaci di spostare l’attenzione sul giusto obiettivo e ritarare il sentimento comune. E infine ci sono le mie preferite, le polemiche incerte, quelle che girano attorno a un tema su cui in teoria non occorrerebbe nemmeno da fare polemica. «Questo film è talmente sgradevole che non ci sarebbe nemmeno da scriverlo, nessuno lo vedrà comunque» diceva qualcuno. E sbagliava, ah come sbagliava.
In una delle prime scene di Feuchtgebiete — Wetlands per gli americani, qualcosa come Zone umide per noi — la protagonista cammina in un bagno pubblico allagato a piedi scalzi, mentre alcuni oggetti le galleggiano attorno alle caviglie. Io non riesco nemmeno a bere il succo d’arancia con la polpa e ho fatto molta fatica, ma sono andato avanti a guardare perché avevo la sensazione che le cose dovessero migliorare. E migliorano: si tingono di rosso, poi di marrone chiaro, diverse volte si impastano di materiali mollicci dei quali è meglio non conoscere la provenienza e vengono in contatto con qualcosa che dovrebbe stare dentro il corpo, ma che per l’occasione è fuori. Quando le voci su un film sono del tenore di “scandaloso!”, state certo che sarà una delusione, ma quando il vociare morboso tace per essere sostituito da uno scuotere rassegnato delle teste degli esperti — magari stringendo i denti, magari deglutendo — allora è probabile che sarà un gran film.
C’è un precedente di cui avrei voluto scrivere. Risale a più o meno un anno fa, quando Klip, della regista serba Maja Miloš, stava per essere esportato. Per non molto tempo a dire la verità, hanno risuonato di qui e di là per le testate grida di scandalo e di aspettativa, poi la decisione unanime è sembrata quella di ignorare il fenomeno. Il problema erano alcune scene di sesso esplicito, girate da body-double, ma attribuite a una ragazzina di quattordici anni — notare che anche l’attrice, Isidora Simijonović era minorenne. Sacrosanto, peccato che attorno a questo particolare ci fosse una pellicola di potenza straordinaria. Uno spaccato brutale e realistico della società nemmeno-più-operaia di Belgrado, massacrata dalla mancanza di prospettive, afflitta dal grigiume delle case popolari e bruciata dall’alcol. Peccato che l’interpretazione di Simijonović fosse sensazionale e la regia di Miloš grandiosa. Sono grato alle critiche, perché mi hanno regalato la visione di un film bellissimo, che altrimenti avrei probabilmente ignorato.
Tornando a noi: in Wetlands, Carla Juri — che interpreta la diciottenne Helena, ossessionata dai fluidi — ha lo sguardo incantato di una Amélie dalla pelle ruvida, meno le fesserie da “vita dolce e mondo soffice su cui camminare in punta di piedi”, più una buona dose di schifezze sparse in giro per la strada e – finalmente – una sana passione sessuale. È bravissima, in primo luogo perché è in grado di allontanarsi da tutto quello che — immagino — possa averle fatto ribrezzo o imbarazzata nel girare la parte, e poi perché non dà l’idea di fare niente di straordinariamente fuori dal normale. Tocca il mondo a piene mani, senza preoccuparsi del viscidume e delle incrostazioni e dei batteri a forma di mostro che popolano tutte le superfici. Assaggia, lecca, infila, sperimenta, ed è giusto così. E poi c’è tutto un contorno tra il dissacrante e l’ironico, tra il sacrilego e la terribile verità: una madre disturbata, depressa e un po’ sadica, che accoglie i vicini brandendo un crocefisso da brava cattolica — «la religione più fuori di testa di tutte» — e cambia gli uomini con le case, una migliore amica che spazia da fidanzati coprofili ma molto dolci a sperimentazioni di altro genere e un padre quasi semplicemente superdotato.
La vera genialità della pellicola, sta nell’abilità strutturale applicata da Devid Wnendt di alternare concetti tagliati con l’accetta a scene di una delicatezza rara. Immaginate una seduta di rasierte, in cui un omaccione (Selam Tadese) vestito soltanto di una lampada frontale, esplora il corpo di Helene con un rasoio usa e getta. «Mi vuoi scopare?», chiede lei, «no, sei troppo giovane». Il peggio che c’è in circolazione raccontato nel chiaro scuro di una stanza dalle tende tirate, con il tatto di un collezionista che maneggi una ceramica antica. Non mi stupisce nemmeno una delle nomination al Sundance o al Deutscher Filmpreis , così come non mi hanno stupito le voci borbottanti del 2013 a Locarno. L’ultima ondata di scandali è dovuta alla traduzione inglese, e alla conseguente globalizzazione di un film che senz’altro lo merita, tratto da un libro che probabilmente non avrebbe meritato quel milione di copie vendute nel 2009.
Vi serviranno diverse pause e c’è un valzer che sicuramente vi resterà in testa per il resto dei vostri giorni, ma se vi capita guardate Wetlands. Merita tutta la fama che ha intorno.