Niente da fare, i partiti non riescono ad eleggere due giudici della Corte Costituzionale. Dopo l’ennesima fumata nera, il Parlamento in seduta comune si arrende all’evidenza e alza le mani. Si riunirà di nuovo la prossima settimana per tentare di superare lo stallo. Degli otto membri del Consiglio superiore della magistratura da nominare, invece, per ora l’hanno spuntata solo in tre. Ieri è toccato a Giovanni Legnini e Giuseppe Fanfani (in quota Pd), oggi all’esponente del Nuovo Centrodestra Antonio Leone. Senza fretta.
Si va avanti così, a rilento. Votazione dopo votazione, una seduta via l’altra. Il Parlamento aveva iniziato in anticipo rispetto alla pausa estiva, il primo scrutinio risale al 12 giugno scorso. Una fumata nera dopo l’altra siamo arrivati a metà settembre. Giorni, settimane, mesi. Roba da perdere la speranza. Intanto i giudici della Corte Costituzionale hanno finito il loro incarico lo scorso 28 giugno, mentre il mandato del Csm è terminato pochi giorni dopo. In un Paese dove ritardi e strappi alle norme sono la regola, non c’è da stupirsi. Per scegliere gli otto membri laici di Palazzo dei Marescialli e i due giudici della Consulta la politica procede con calma. Un nome alla volta, neanche fossero i dieci piccoli indiani di Agatha Christie.
I partiti si accordano, poi ci ripensano. I leader indicano le personalità di riferimento, poi cambiano idea. Incoraggiate dalle votazioni a scrutinio segreto, si consumano piccole rivolte all’interno dei gruppi parlamentari. Accade così che Pd e Forza Italia non riescono a confermare le intese dell’ultima ora (ma qualcuno le chiamerebbe spartizioni). Gli accordi più delicati riguardavano le due poltrone alla corte Costituzionale. In quota dem è stato individuato l’ex presidente della Camera Luciano Violante, per i berlusconiani la scelta è caduta su Antonio Catricalà, già sottosegretario alla presidenza del Consiglio durante l’esecutivo Monti e da sempre vicino a Gianni Letta. Niente da fare. All’ultimo le nomine saltano. Le difficoltà sono nel centrodestra: tra i parlamentari forzisti qualcuno non ci sta. Molti senatori, raccontano, insistono per eleggere il collega Donato Bruno. A scanso di nuovi ritardi, si decide di sospendere tutto. Meglio riflettere qualche giorno.
Intanto il voto – anzi, i voti – per eleggere i giudici della Consulta e rinnovare il Csm hanno un merito indubbio. Evidenziano uno dei grandi limiti della politica italiana. Stavolta l’inconcludenza del Palazzo emerge in tutta la sua evidenza. Un Parlamento specchio del Paese, sia chiaro. Rappresentazione perfetta di un’Italia persa tra lungaggini e ritardi. È difficile non cogliere centinaia di piccoli paragoni quotidiani nei tempi burocratici delle nomine di Corte Costituzionale e Csm. Come in quella passione tutta italiana per il rinvio. In un Paese che continua a prorogare i commissari per il terremoto dell’Irpinia, cosa vuoi che sia un altro ritardo? Dopo tutto Consulta e Csm dovevano essere rinnovati solo tre mesi fa…
E chissà che ne pensa Giorgio Napolitano. Lo scorso 2 settembre il presidente della Repubblica era stato costretto a scrivere ai presidenti di Camera e Senato per sbloccare l’imbarazzante impasse. «È indispensabile che le forze politiche rappresentate in Parlamento, benché pressate da numerosi impegni, dedichino nel corso di questa settimana l’attenzione necessaria per compiere le loro scelte e garantire l’esito positivo delle prossime votazioni». Del resto le dieci nomine sono «adempimenti non ulteriormente differibili, poiché i due giudici della Corte sono cessati dall’incarico il 28 giugno scorso e il Consiglio superiore della magistratura ha concluso il suo mandato il 31 luglio: entrambi gli organi saranno inoltre chiamati ad affrontare nei prossimi mesi importanti scadenze».
L’aspetto paradossale della vicenda è che un anno e mezzo fa il capo dello Stato era stato confermato al Quirinale – caso unico nella storia repubblicana – proprio per l’incapacità della politica di individuare un successore. La mente torna alla primavera 2013. Nonostante un lungo dibattito, il Parlamento in seduta comune non era stato in grado di eleggere un presidente. I partiti incapaci di mettere da parte le personali convenienze e accordarsi su un nome condiviso.
Era il periodo di Ro-do-tà (come scandivano ossessivamente i grillini da poco entrati a Palazzo). I giorni delle 101 coltellate a Romano Prodi e dell’ennesimo sogno sfumato di Franco Marini. Si racconta che alla fine il segretario del Pd Pierluigi Bersani salì al Colle quasi per supplicare Napolitano di farsi rieleggere. E con lui i leader dei principali partiti. Il presidente, che più volte aveva avvertito di voler farsi da parte, accettò. Seppure a malincuore. Più tardi, con un duro intervento davanti al Parlamento in seduta comune, parlando di riforme accusò senza mezzi termini l’inconcludenza di chi lo aveva appena eletto. Gli applausi di chi non aveva neppure capito di essere al centro delle critiche restano uno dei momenti più bassi della legislatura.