Vanilla LatteMcDonald’s, abbiamo un problema

McDonald’s, abbiamo un problema

“Oak Brook, abbiamo un problema”. Prendendo in prestito una delle citazioni più celebri dell’ultimo secolo, sarebbe più o meno questo il messaggio che le migliaia di fast food con gli archi dorati sparse per il territorio del Nord America e per il resto del mondo potrebbero, in questi giorni, trasmettere alla loro casa base, la McDonald’s Plaza, quartier generale del colosso della ristorazione con sede nella pacifica località di Oak Brook, Illinois. Perché a dispetto dei numeri impressionanti messi in campo dal gigante del fast food, che dà lavoro a oltre 1,8 milioni di persone in tutto il pianeta, ovvero una cifra che supera la popolazione dell’intera città di Philadelphia, che può contare su più location di tutta la concorrenza (messa insieme), o del fatto che le statistiche dimostrino che il suo marchio è più riconoscibile, nel mondo, persino della croce cristiana, da qualche mese qualcosa sembra non andare nel verso giusto, nel meccanismo perfetto che, dagli anni ’40 a oggi, ha reso l’azienda fondata da Richard e Maurice McDonald (o da Ray Croc) uno degli esperimenti di business internazionali meglio riusciti nella storia dell’umanità.

Alcune settimane or sono McDonald’s Corporation, ovvero la più grande compagnia di ristoranti del globo, ha riportato il calo più sensibile degli incassi da inizio 2003. All’interno dei confini statunitensi, dove si trova circa il 40% delle 35mila location dell’azienda disseminate per i cinque continenti, le vendite in ristoranti aperti da almeno 13 mesi sono state in pareggio o in discesa per la maggior parte dell’ultimo anno. Sarebbe senza dubbio prematuro e immotivato parlare di “crisi” o “declino” per la società, che gode comunque di ottima salute e mantiene saldo il suo posto in cima al mercato, ben distaccando la concorrenza. Tuttavia, le cifre poco incoraggianti registrate negli ultimi tempi rappresentano un preoccupante segnale d’allarme, impossibile da ignorare da parte dei vertici aziendali, che hanno già annunciato la rimozione del capo della divisione Usa (è la seconda volta che ciò avviene, negli ultimi due anni), che sarà sostituito dall’ex funzionario Mike Andres, il quale avrà l’ingrato compito di tentare di raddrizzare il verso dei dati di vendita.

Millennial in fuga

L’andamento dei profitti non è il solo dato a causare inquietudine nelle sale ai piani alti di McDonald’s Plaza. C’è un elemento ancor più significativo e che, oltre a incidere sul presente, potrebbe avere ripercussioni devastanti nel futuro, e riguarda la composizione della clientela. L’attenzione è tutta rivolta verso i cosiddetti “Millennial”, ovvero tutti coloro che hanno avuto i natali nel periodo compreso tra gli anni ’80 e gli inizi del nuovo millennio. La “Generazione Y”, come è stata per breve tempo definita o, molto più semplicemente, gli attuali ventenni e trentenni. Generazioni fondamentali, per il mercato, e da sempre uno dei cavalli di battaglia del gigante dei fast food. Le quali però, come dimostrano le ultime ricerche, stanno disertando la chiamata alle armi di Ronald McDonald’s e degli enormi archi dorati, puntando invece su catene più “casual” e infinitamente meno conosciute come Chipotle Mexican Grill, Five Guys Holdings, o Panera Bread.

(Justin Sullivan/Getty Images)

Il numero di consumatori americani di età compresa tra i 19 e i 21 anni che mangia da McDonald’s ogni mese è sceso del 12,9% dall’inizio del 2011, mentre la percentuale di utenti mensili dai 22 ai 37 anni nello stesso periodo è rimasta invariata. I giovani dai 19 ai 21 anni, nel frattempo, hanno incrementato le loro visite agli altri ristoranti “fast-casual” del 2,3%, mentre la fascia 22-37 del 5,2%, come emerso da una ricerca condotta dalla società Technomic e riportata dal Wall Street Journal. Perché questo cambio di rotta? In primis, questioni di reddito: i principali fast-food (McDonald’s, Burger King, KFC, etc.) di solito “attraggono maggiormente clienti con bassi redditi, rispetto a coloro che frequentano le nuove catene in ascesa”, nota Leslie Patton su Bloomberg Businessweek, in un articolo in cui si chiede se l’America abbia raggiunto “il culmine dei burger”, e nel 2012 chi ha avuto un reddito annuale inferiore a 70mila dollari ha speso in media 1.718 dollari l’anno in pasti fuori casa, ovvero il 2,2% in meno rispetto al 2003; dall’altra parte, chi ha redditi superiori a 150 mila dollari, invece, ha speso il 2.7% in più, nello stesso lasso di tempo, in pasti fuori casa. In secondo luogo, la preferenza alle nuove catene è da addebitarsi a un’offerta più salutare: «Sempre più spesso, i consumatori più giovani sono alla ricerca di cibo più fresco e più sano, e di catene che offrano opzioni di menù personalizzabili, pagando poco più del prezzo per un combo meal», scrive Julie Jargon del Wall Street Journal.

La difficile svolta salutistica

I “Millennial” rappresentano una delle prime preoccupazioni per McDonald’s. Perché i ventenni e i trentenni – dati alla mano, sono circa 59 milioni le persone tra i 23 e i 36 anni negli Stati Uniti – potrebbero mettere a rischio, nel prossimo futuro, una situazione di mercato che quest’anno si è già dimostrata stagnante, dove non in discesa. Ma il campanello d’allarme era già suonato da qualche tempo, e l’azienda, diversi mesi or sono, aveva intrapreso le prime contromisure: nell’aprile del 2013, proprio in risposta al problema della “Next Generation”, la catena aveva lanciato il “McWrap”, una tortilla farcita con ingredienti quali pollo, lattuga, foglie di cavolo, pomodori, cetrioli e altro ancora. Un esempio di cibo sano e salutare, che strizzava l’occhio ai prodotti già precedentemente offerti dalla concorrenza di Five Guys, Chipotle, o Subway. Una sorta di piccola svolta salutista, volta principalmente a intercettare la giovane clientela, con l’obiettivo di farla tornare alla casa base. Perché i Millennial, per usare le parole di Gary Stibel, Ceo di New England Consulting Group, «sono 80 milioni di persone, ma influenzano i prossimi 80 milioni, sia più giovani che più anziani».

La missione “McWrap”, a dispetto delle buone intenzioni, non ha avuto l’esito desiderato, e le vendite del prodotto sono state inferiori alle aspettative. McDonald’s, così, sta ora studiando diverse soluzioni per recuperare i Millennial, tra le quali spicca la possibilità, per i clienti, di comporre e personalizzare il proprio hamburger, come già avviene da Five Guys e Smashburger. Per Jim Slama, Presidente dell’organizzazione non-profit FamilyFarmed.org impegnata nell’espansione di produzione-marketing-distribuzione del cibo coltivato a livello locale e prodotto “responsabilmente”, il segreto è offrire menù più sani: «Per il colosso del fast-food è giunto il momento di tracciare un nuovo corso», scrive sull’Huffington Post americano, «quello che riconosce la crescente domanda dei consumatori per il buon cibo, cresciuto il più possibile vicino a casa, da produttori sostenibili, umani e giusti». Una strada che, riconosce lo stesso Slama, McDonald’s ha comunque già intrapreso. Lo stesso Ceo della compagnia Don Thompson sembra avere compreso quale sia il punto su cui intervenire: «Stiamo rafforzando i nostri messaggi creativi, ponendo maggiormente l’accento sulla qualità del nostro cibo e per nuovamente ristabilire il legame emotivo che i nostri clienti associano con l’esperienza di McDonald’s».

Cina e Russia: soluzioni lontane

A complicare ulteriormente lo scenario attraversato dall’azienda di Oak Brook, alle questioni che la affliggono sul suolo casalingo, si sono aggiunti, recentemente, anche non pochi guai provenienti da fuori confine. E, in particolare, da due dei più importanti mercati del panorama globale, Cina e Russia, Paesi dove opera da oltre un ventennio. Nel primo caso, la notizia risale alla seconda metà del mese di luglio, quando le agenzie di tutto il mondo, Italia compresa, hanno reso nota la chiusura, ordinata dalle autorità sanitarie, di Husi, una ditta di Shanghai che riforniva carne avariata a diverse catene internazionali, tra cui Pizza Hut, Kentucky Fried Chicken e McDonald’s. A dispetto dell’immediata sospensione delle ordinazioni da parte delle tre aziende coinvolte – in questo caso, considerabili parti lese – seguita dalle azioni legali del caso, l’impatto di tali news sul popolo dei consumatori di tutta l’Asia è stato notevole e, di conseguenza, le vendite di McDonald’s ne hanno risentito.

(YOSHIKAZU TSUNO/AFP/Getty Images)

In Giappone, circa 500 ristoranti hanno rimosso le “chicken nuggets” dai propri menù, per il timore che potessero contenere carne avariata. Le vendite di Big Mac e di Spicy McWings sono dimezzate in alcune città. Quella che era un’isola felice per il colosso del fast food, è così diventata un mercato in difficoltà: nel mese di luglio, le vendite nelle location del settore Asia/Pacifico, Medio Oriente e Africa sono scese del 7,3%. In una comunicazione ufficiale, la compagnia ha annunciato che potrebbe non raggiungere le previsioni di incassi per l’anno in corso, a causa della vicenda del fornitore cinese.

In Russia, invece, la questione appare ancora più seria. Le foto di quel 31 gennaio 1990, delle lunghe code per la storica inaugurazione del primo McDonald’s in terra sovietica (all’epoca, anche il più grande McDonald’s del mondo), a pochi passi dal Cremlino, tuttora presenti nella memoria di molti, poiché interpretate dai più come l’ennesimo segnale della fine della Guerra Fredda, appaiono oggi come immagini sbiadite e lontane.

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Le code per l’inaugurazione del primo McDonald’s in Russia, a Mosca, nel 1990

Perché la grande catena di fast food, da sempre sinonimo della “american-way-of-life” e, nella buona e nella cattiva sorte, di tutto ciò che è a stelle e strisce, è ora in mezzo, suo malgrado, alle crescenti tensioni tra Mosca e l’Occidente. Con l’escalation di minacce e di intimidazioni legate alla crisi in Ucraina, se da una parte Europa e Stati Uniti rispondono con sanzioni nei riguardi della Russia, quest’ultima, in quella che appare a molti come una mossa dettata da ragioni diplomatiche e geopolitiche, ha deciso di rendere la vita più difficile ai marchi Usa. In primis, ovviamente, McDonald’s, peraltro tra i main sponsor degli ultimi giochi olimpici invernali di Sochi, finita nel mirino della “Rospotrebnadzor”, ovvero l’agenzia federale russa che si occupa della sicurezza dei consumatori. La quale, a inizio agosto, ha iniziato a effettuare severe ispezioni nei locali, seguite da ordini di chiusura (“per motivi tecnici”) dei fast-food, tra i quali anche il leggendario avamposto di piazza Pushkin, il primo della storia dell’ex impero sovietico. 

Negli ultimi giorni, il numero di ristoranti obbligati ad abbassare le serrande o costretti a ispezioni a tutto campo dalle autorità russe è aumentato esponenzialmente, in concomitanza con il deteriorarsi dei rapporti diplomatici tra il Cremlino e la Casa Bianca. Sono in totale 12, al momento, i locali chiusi da Rospotrebnadzor, su presunte “violazioni sanitarie”, mentre oltre un centinaio sarebbero sotto indagine da parte delle autorità federali russe. Che si tratti di una crociata dovuta a motivazioni politiche, di ripercussioni alle sanzioni, o di operazioni di routine, il risultato non cambia, e a farne le spese è, prima ancora delle diplomazie internazionali, l’azienda americana. La quale sta comprensibilmente valutando quali mosse effettuare. «Stiamo studiando l’entità dei reclami rivolti a noi, per determinare le azioni necessarie per aprire i ristoranti ai nostri clienti il più presto possibile», si legge in un recente comunicato diffuso dal marchio con sede a Oak Brook. Un messaggio freddo e di circostanza. Probabilmente, le uniche parole possibili, per un popolare brand noto in tutto il mondo, che è stato scaravantato sullo scacchiere diplomatico internazionale, non per sua volontà, e senza grandi libertà di movimento.

Un nuovo percorso da tracciare

Far ritornare i “Millennial”. Recuperare il terreno perduto in Cina. Riaprire i ristoranti in Russia. Ma anche, in misura minore, affrontare la concorrenza dei marchi emergenti. Sono le più attuali sfide che McDonald’s deve fronteggiare, che si aggiungono a quelle, già esistenti da tempo, rappresentate dagli storici competitor in casa e all’estero, e alle questioni sindacali negli Usa. C’è chi sostiene che si tratti solo di un periodo, e che l’azienda leader del settore sarà in grado di limitare i danni, come ha sempre fatto, da decenni a questa parte. C’è invece chi suggerisce un ripensamento complessivo dell’offerta, magari attraverso l’acquisizione di qualche catena minore oggi sulla cresta dell’onda (vale la pena ricordare che McDonald’s acquistò azioni di Chipotle nel 1998, per poi rivenderle otto anni dopo a 1,5 miliardi di dollari). «McDonald’s ha un problema di immagine e deve impostare una visione di ciò che vuole essere», ha dichiarato al Wall Street Journal Dieter Waizenegger, direttore esecutivo del CtW Investment Group, che segue fondi di investimento con holding nella catena. «Devono tracciare un nuovo percorso». E chissà che, dopo aver scritto la storia del fast-food nel ventesimo secolo, non riescano a farlo anche nel ventunesimo.

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