Google lo sa
Qualche settimana fa The Atlantic ha pubblicato un articolo dal titolo Google Knows you better than you know yourself (che tradotto rende più o meno così: Google ti conosce meglio di quanto tu conosci te stesso). Qui l’autore descrive sorpreso le capacità predittive di Google Now, un software installato nel sistema operativo del suo telefonino, in grado di fornirgli informazioni giuste al momento giusto, attraverso un messaggio pop up sul cellulare. Nel caso in questione si trattava di un’informazione che giornalmente, e sempre alla stessa ora, il software comunicava al soggetto fornendo informazioni inerenti al tempo impiegato per tornare a casa dal lavoro. Al di là dell’episodio in sé proviamo a riflettere sul concetto che sta alla base del titolo dell’articolo: Google ci conosce meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. Sembra un paradosso, e viene da chiedersi come può essere vera un’affermazione di questo tipo.
Andiamo con ordine: non siamo lontani dalla verità se diciamo che la stragrande maggioranza di coloro i quali effettuano le ricerche su Internet lo fa attraverso Big G. O ancora, che quella di Google è, il più delle volte, la pagina impostata come predefinita del browser dal quale l’utente effettua l’ingresso sul web. In poche parole quando si apre per la prima volta la finestra che dà accesso a Internet, in nove casi su dieci a comparire è il search di Google. Basti pensare che, secondo i dati, in Europa il 90% degli utenti comincia a navigare partendo proprio da lì, e nel caso non foste ancora del tutto convinti, qui scoprirete che è anche il sito più visitato al mondo. Tuttavia la vera forza di questo strumento sta nell’essere diventato una sorta di condizione imprescindibile della nostra vita digitale. Perfino il lessico utilizzato da molti di noi si è dovuto inchinare di fronte alla pervasività della creatura di Sergey Brin e soci.
“Google sa già tutto di me. Che almeno si renda utile”
Al punto tale che sempre più spesso l’espressione “ricercare su Internet” cede il passo ad un posticcio “googlare”. Un verbo in grado in un certo senso di elevare il motore di ricerca al piano dell’onniscienza, come se esso fosse il contenitore di tutto lo scibile umano, l’oracolo da cui pescare le risposte di cui abbiamo bisogno, come se non esistesse altra strada per arrivare alla conoscenza, come se ci trovassimo di fronte all’unica porta d’acceso dell’universo multimediale.
Quest’ultima poi è una verità assoluta per chi, con un pizzico d’ingenuità, tende a sovrapporre le due entità (Google e Internet) seppur estremamente diverse tra loro. Basta mettere davanti a un computer una persona di mezza età, magari con poca dimestichezza con Internet e le nuove tecnologie, per ritrovarsi, ancor prima di aprire un browser, a dover soddisfare una richiesta del tipo: “voglio andare su Google”. L’identificazione del mondo virtuale con uno strumento di navigazione rende l’idea dell’impronta indelebile che quest’ultimo ha impresso nell’immaginario collettivo di tutti noi.
Google ci conosce meglio di chiunque altro, dicevamo. Anche di noi stessi. Bene. James Carmichael autore dell’articolo citato in precedenza ha provato a raccontare come Google Now sia in grado di monitorare le nostre vite: «tiene traccia di ogni cosa che ti riguarda — scrive — e questo può mettere in ansia qualcuno. Non me. Google sa già tutto di me, che almeno sia utile». Un concetto tutto sommato condivisibile. Considerata l’enorme mole di informazioni personali che ogni utente mette in Rete, il fatto che Google conosca i nostri spostamenti pare cosa da poco. Il vero fulcro del problema è un altro. Cosa succederà quando sarà Google a prendere decisioni al posto nostro? Come reagiremo quando sarà un algoritmo a decidere come gestire le informazioni presenti sul web che ci riguardano?
Eric Scmidth, presidente della società di Mountain View, ha sorpreso un po’ tutti quando, la scorsa settimana, in occasione dell’apertura della seduta del Comitato consultivo di Google sul diritto all’oblio a Roma, ha esordito dicendo: «siamo qui per ascoltare». Lo scorso tredici maggio la Corte di Giustizia Europea ha emesso una sentenza per certi versi storica: rispondendo ad un’istanza di un cittadino spagnolo (qui trovate tutti i dettagli della vicenda) ha sancito il diritto all’oblio degli utenti. Che in sostanza consiste nella richiesta legittima della rimozione di contenuti ritenuti in qualche modo inadeguati, non più pertinenti o lesivi nei confronti di un soggetto. Si tratta di prendere una decisione che riesca al tempo stesso a difendere sia la privacy di un privato cittadino che il diritto del pubblico ad accedere all’informazione.
In seguito alle sempre più numerose richieste giunte da tutta Europa — attualmente si parla ci circa 120mila richieste di rimozione — Google ha deciso di istituire un comitato di esperti,capace di raccogliere suggerimenti e opinioni di cittadini, docenti universitari, giuristi e professionisti di tutta Europa attraverso una serie di sette incontri pubblici. Per comprendere quanto la materia sia delicata per Google, basta elencare solo alcuni dei nomi dei componenti del comitato: Jimmy Wales fondatore di wikipedia, Sylvie Kauffmann direttore responsabile del quotidiano francese “Le Monde”, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger ministro federale di giustizia tedesca, Frank La Rue Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la promozione e la tutela del diritto alla libertà di opinione e Luciano Floridi, unico italiano, professore di Filosofia ed etica dell’informazione all’università di Oxford. Non proprio gli ultimi arrivati insomma.
“Dobbiamo bilanciare la privacy e il diritto all’informazione e capire come affrontare le richieste che abbiamo. Ci sono una serie di complicazioni, siamo qui per ascoltare”
La prima tappa del tour delle sette sedute pubbliche ha avuto luogo a Madrid lo scorso nove settembre, poi è toccato a Roma e a seguire sarà la volta di Parigi, Varsavia, Berlino, Londra e Bruxelles. Se Scmidth si dice pronto ad ascoltare, è perché innanzitutto quella sentenza della Corte Ue ha scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora. Un calderone di fattispecie in cui prendono vita gli interrogativi più disparati: ad esempio, fino a che punto un contenuto può essere considerato di interesse pubblico? Chi può chiedere la deindicizzazione? Il soggetto che chiede la rimozione di un contenuto risulta alla fine essere più tutelato rispetto all’autore del contenuto stesso? A decidere sull’eliminazione del contenuto deve essere Google o un’istituzione pubblica indipendente in grado di difendere l’interesse di tutta la comunità?
Gli esperti del Comitato consultivo di Google
A questi e molti altri interrogativi hanno cercato di rispondere alcuni degli esperti, italiani e non, chiamati in causa durante la seduta pubblica del 10 settembre a Roma. Molti spunti interessanti sono stati esposti davanti al Comitato, sempre attento e pronto a controbattere punto su punto alle tesi degli esperti. Per alcuni di loro eliminare contenuti da Internet sarebbe comparabile all’atto di strappare pagine da un libro di storia. In ballo c’è la memoria collettiva di una società, che si costruisce anche attraverso il suo passato. In questo senso il diritto all’oblio è inversamente proporzionale al diritto alla storia, più si espande il primo più si comprime il secondo.
C’è chi sostiene poi che la sentenza della Corte di giustizia europea si stata presa senza dare la giusta considerazione all’articolo 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, quello secondo cui ogni persona ha diritto alla libertà di espressione, ma anche la libertà di ricevere o di comunicare informazioni senza ingerenze delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. In generale comunque sembrano essere un po’ tutti d’accordo sul fatto che non possa essere Google a decidere quali contenuti rimuovere e quali no. Essendo la società di Mountain View un soggetto privato, il timore è quello che essa tenda a ragionare secondo logiche legate ad interessi personali, senza tenere conto di quelli della comunità. Motivo per cui un organo giuridico indipendente sarebbe più adatto a prendere delle decisioni di questo tipo.
Va sottolineato che tra tutte le tesi, quella che ci è sembrata più interessante è stata quella di Lorella Zanardo scrittrice e attivista. Il filo conduttore del discorso è basato su un principio fondamentale: il tipo di contenuto che viene pubblicato. Secondo la scrittrice infatti c’è differenza tra la pubblicazione di un contenuto scritto e di un’immagine. Quest’ultima essendo fruibile più facilmente arriva ad un pubblico più ampio, e spesso può scatenare derive voyeuristiche pericolose senza che chi la pubblica abbia il tempo di rendersene conto.
Occorre quindi fare una distinzione tra immagini e testi, tenendo conto del fatto che la richiesta di rimozione dei link potrebbe non essere coerente sul piano del contenuto scritto, ma esserlo su quello del contenuto visivo. A tal proposito parrebbe utile lavorare sul piano dell’educazione all’uso corretto degli strumenti di comunicazione soprattutto tra i più giovani. Le potenzialità dei social network ad esempio vengono spesso sottovalutate. Ci ritroviamo troppo a dover assistere alla pubblicazione di contenuti considerati interessanti e adeguati in quel momento da parte di chi li pubblica, ma che in futuro potrebbero rappresentare un scomodo boomerang da cui doversi difendere.
Il risultato di tutto ciò può essere interpretato con una semplice espressione: “banca della conoscenza”. Google non vuole solo raccogliere informazioni su di noi, sulla nostra vita, sui nostri interessi, ma vuole anche verificare che questi siano sicuri, attendibili, verificabili. In una parola siano reali. Per farlo ha realizzato un algoritmo sofisticatissimo in grado di processare miliardi di dati e selezionare quelli con il più alto tasso di affidabilità.
Sarà google a dirci ciò di cui abbiamo bisogno, sarà in grado fare previsioni sul nostro futuro e rispondere ad esigenze ancor prima che esse si manifestino
Si chiama Knowledge Vault e rappresenta un sistema automatizzato in grado di mettere in pratica un fact-checking che restituisce fatti “affidabili” in grado di essere letti da uomini e macchine. «Siamo di fronte al più grande deposito di conoscenza mai costruito» hanno fatto sapere da Mountain view, in pratica non ci saranno più ambiguità nei risultati di ricerca e Google sarà in grado di offrire risultati sempre più perfetti riducendo al minimo il margine di errore.
Knowlege Vault si basa su sistema chiamato bot (una sorta di utente virtuale) in grado, grazie ad un algoritmo, di valutare e selezionare fatti 24 ore al giorno con una precisione che sfiora la perfezione. Se le precedenti banche della conoscenza venivano realizzate grazie all’immissione di informazioni in Rete da parte degli esseri umani, Knowledge Vault raccoglie e analizza informazioni in maniera del tutto autonoma, consentendo a Google di essere in possesso di tutte le risposte di cui l’utente ha bisogno. Magari un giorno scopriremo che sarà proprio Google a dirci ciò di cui abbiamo bisogno, che sarà in grado di fare previsioni sul nostro futuro e rispondere ad esigenze ancor prima che esse si manifestino. Perché “non sappiamo bene chi fu per primo a cominciare, se noi o loro, ma sappiamo che fummo noi a scegliere di googlare”.