Il racconto di Charles Dickens Passeggiate notturne (Night Walks) fu pubblicato per la prima volta nel 1860 dal periodico All the Year Round (fondato dallo stesso Dickens), con la firma Uncommercial Traveller (“Viaggiatore disinteressato”, in contrapposizione al Commercial Traveller, ovvero il commesso viaggiatore che si sposta per motivi di lavoro). In Italia questo racconto, insieme al più lungo Perdersi a Londra, è stato pubblicato da Mattioli 1885.
Alcuni anni fa una temporanea incapacità di dormire, imputabile a una sorta di angoscia, mi portò a camminare per le strade nottetempo, per diverse notti di seguito. Il disturbo avrebbe richiesto molto tempo per essere vinto se fosse stato affrontato flemmaticamente a letto; invece fu presto sconfitto da un vigoroso trattamento: alzarmi subito dopo essermi coricato e uscire immediatamente, per tornare a casa, esausto, all’alba.
Nel corso di quelle notti affinai molto bene la conoscenza, sia pur amatoriale, di cosa significhi essere un uomo senza fissa dimora. Il mio obiettivo principale era passare la notte: questa occupazione mi permise di empatizzare con quelle persone il cui scopo era il medesimo ogni notte dell’anno.
Era il mese di marzo e il tempo era umido, nuvoloso e freddo. Il sole non sarebbe sorto prima delle cinque e mezza, e la notte, all’ora in cui mi accingevo ad affrontarla, circa a mezzanotte e mezza, sembrava ancora giovane.
L’irrequietezza di una grande città, il modo in cui si volta e rivolta prima di riuscire a prender sonno, era il primo intrattenimento di cui noi vagabondi potevamo beneficiare. Durava all’incirca due ore. Al termine delle quali le luci dei pub si spegnevano e i garzoni sbattevano in strada gli ultimi ubriachi molesti. A quel punto perdevamo molti compagni: ma i veicoli smarriti e gli sbandati erano ancora dei nostri. Se eravamo molto fortunati saltava fuori il manganello di un poliziotto e scoppiava una rissa, ma sorprendentemente questo era un diversivo che la città elargiva di rado. Fatta eccezione per Haymarket, la zona peggio sorvegliata di Londra, per i dintorni di Kent street nel Borough, e per un tratto della Old Kent road, raramente la violenza interrompeva la pace. Tuttavia succedeva sempre che Londra, quasi volesse imitare i suoi abitanti, prima di spegnersi si lasciasse andare a qualche spasmo di irrequietezza: quando tutto sembrava ormai tranquillo si poteva pur stare certi che a una carrozza sferragliante, subito ne sarebbe seguita un’altra mezza dozzina. Analogamente, il vagabondo poteva costatare che gli ubriachi sembravano attratti magneticamente gli uni dagli altri; così, quando vedevamo un ubriaco barcollare davanti alle serrande di un negozio, sapevamo per certo che nel giro di cinque minuti un altro ubriaco sarebbe comparso, sempre barcollante, pronto a fraternizzare o ad azzuffarsi col primo.
L’esemplare di avvinazzato più comune era il bevitore di gin con le braccia scarne, il viso gonfio e le labbra plumbee; ma alle volte ci capitava di incontrare una tipologia più rara, dall’aria più dignitosa. In quei casi, dieci a uno che il tizio in questione era vestito con abiti da lutto smessi. Sotto questo aspetto la notte è come il giorno: l’individuo comune che entra inaspettatamente in possesso di una piccola fortuna, entra automaticamente in contatto con una grande quantità di alcol.
Alla lunga si spegnevano anche gli ultimi baluardi di vita diurna, incarnati da qualche tardivo venditore di pasticci o di patate calde, e Londra sprofondava nel sonno. Da quel momento la mente del vagabondo era dominata da un solo imperativo: cercare una traccia di compagnia, un posto illuminato, un movimento… qualsiasi cosa suggerisse la presenza di qualcuno ancora in piedi – o che fosse almeno sveglio – e perciò stesso spiava dentro le finestre alla ricerca di una luce.
Girovagando per le strade sotto una fitta pioggerella, il vagabondo, cammina e cammina, non vedeva altro se non l’interminabile groviglio di strade, fatta eccezione per qualche angolo qua e là in cui conversavano un paio di poliziotti o in cui il brigadiere o l’ispettore sorvegliavano i propri uomini. Qualche volta – ma di rado – il vagabondo si accorgeva di una furtiva presenza che spiava da un uscio a pochi metri da lui. Avvicinandosi, scorgeva un uomo in piedi nell’oscurità del vano, evidentemente assorto in un’attività che non aveva la benché minima utilità sociale. Come sotto incanto, in un silenzio spettrale adatto a quell’ora, il vagabondo e questo signore si scrutavano dalla testa ai piedi, dopo di che, senza scambiarsi una parola, si separavano, con reciproca diffidenza.
Goccia dopo goccia, dai comignoli ai cornicioni, dalle grondaie alle condutture, mano a mano l’ombra del vagabondo si posava sul lastricato della strada per Waterloo Bridge. L’ideale sarebbe stato avere mezzo penny, una scusa per augurare «Buonanotte» al gabelliere e accalappiarsi così una scintilla del suo fuoco. Il gabelliere era circondato da cose accoglienti: un bel fuoco, un buon cappotto, una calda sciarpa di lana; anche la sua vivace insonnia era un’ottima compagnia, quando faceva tintinnare il resto del mezzo penny su quella sua tavola di metallo, come un uomo che avesse sfidato la notte, con tutti i suoi cupi pensieri, incurante dell’arrivo dell’alba.
Occorreva farsi coraggio per attraversare il ponte, perché era terrificante. In quelle notti l’uomo assassinato e fatto a pezzi non era ancora stato gettato con una fune oltre il parapetto; era ancora vivo e probabilmente dormiva tranquillo, per nulla turbato da sogni premonitori riguardo alla sua prossima fine. Il fiume però aveva un aspetto spaventoso: gli edifici sulle sponde erano avvolti in neri sudari e i riflessi delle luci sembravano provenire dal profondo delle acque, come se i fantasmi dei suicidi le avessero infestate per mostrare dove erano sprofondati. La luna e le nubi selvagge erano inquiete come una coscienza sporca in un letto disfatto e lo spettro dell’immensa Londra sembrava calare, oppressivo, sulle acque.
Tra il ponte e i due grandi teatri non c’erano che pochi passi: erano perciò la tappa successiva. Sinistri e bui all’interno, di notte, quei grandi pozzi asciutti erano di una desolazione da non credere, con le file di volti ormai dissolte, le luci spente e i posti a sedere tutti vuoti. Veniva da pensare che a quell’ora nulla del teatro fosse riconoscibile tranne il teschio di Yorick (quello adoperato nell’Amleto, ndt).
In una delle mie passeggiate notturne, mentre i campanili della chiesa scuotevano il vento e la pioggia di marzo con i rintocchi delle quattro, varcai la soglia di uno di questi grandi deserti, e mi addentrai. Con una fioca lanterna in mano, cercai a tentoni la ben nota strada per il palco e guardai oltre l’orchestra: il vuoto dietro di essa sembrava una grande fossa scavata in tempo di pestilenza, una squallida caverna dall’aspetto immenso, i cui lampadari erano andati, esattamente come tutto il resto, e niente era visibile nella nebbia e nella foschia se non le file di sudari. Il pavimento sotto i miei piedi – su cui l’ultima volta avevo visto i contadini di Napoli danzare tra le viti, incuranti della montagna ardente che minacciava di seppellirli – era ora piantonato da un robusto serpente di tubo flessibile, che giaceva in vigile attesa del serpente di fuoco, pronto a piombare su di lui qualora questi gli avesse mostrato la sua lingua biforcuta. Il fantasma di un guardiano, con in mano il cadavere di una candela, apparve lontano nel loggione e subito sparì. Indietreggiando nel proscenio, tenendo la mia lanterna sopra la testa, puntata in direzione del sipario alzato – non più verde, ma nero come l’ebano – il mio sguardo si perse in un fosco soffitto a volta, che conservava ancora le tracce di un relitto di vele e sartiame: in quel momento mi sentii come un sommozzatore nel profondo del mare.
In quelle ore notturne, in cui non c’è movimento per le strade, includere Newgate nel tragitto mi offriva uno spunto di riflessione: toccavo la sua ruvida pietra, pensavo ai prigionieri che dormono, e poi davo un’occhiata alla guardiola oltre il cancello ferrato, e vedevo il fuoco e la luce dei secondini di guardia riflesse sul muro bianco. Coglievo l’occasione per soffermarmi anche a quella maledetta piccola “Debtors’ Door” – la porta meglio sprangata al mondo – che così tante volte si è trasformata in una Porta della Morte. Ai tempi in cui i migranti dalla campagna si misero a falsificare banconote da una sterlina, chissà quante centinaia di disgraziati di entrambi i sessi – molti dei quali innocenti – lasciarono un mondo assurdo e spietato, penzolando con davanti agli occhi la mostruosa immagine del campanile della chiesta cristiana del Santo Sepolcro! Mi chiedo se il salone della banca sia infestato dalle anime piene di rimorso dei suoi vecchi direttori, o se invece è tranquillo, come questo degenerato Alceldama[1] che è il carcere di Newgate.
Proseguire verso la banca, rimpiangendo i bei tempi andati e lamentandosi del funesto presente sembrava essere il logico passaggio successivo, e così decidevo di fare: le vagabondavo intorno e pensavo al tesoro al suo interno; così come alla piccola schiera di soldati che passava lì la notte, chinata sul fuoco. Dopodiché, mi recavo a Billingsgate, sperando di incontrare la gente del mercato, ma poiché era troppo presto mi risolvevo ad attraversare London Bridge e scendere sulla riva di Surrey, tra gli edifici della grande fabbrica di birra. Lì c’era molto movimento, e il vapore, l’odore del malto e lo sferragliare dei paffuti cavalli da tiro alle loro mangiatoie erano una compagnia rinfrancante. Del tutto rinvigorito dall’essermi mescolato a una così buona compagnia, ripartivo con una nuova meta, nello specifico la vecchia prigione di King’s Bench, stabilendo che, una volta giunto alle mura, avrei dedicato un pensiero al povero Horace Kinch e alla sindrome del tarlo negli uomini[2].
Un morbo molto curioso, la sindrome del tarlo, e difficile da diagnosticare, almeno all’inizio. Aveva condotto Horance Kinch tra le mura della vecchia prigione di King’s Bench, per poi farcelo uscire con i piedi davanti. Era un uomo per bene a vedersi: nel pieno degli anni, benestante, intelligente quanto occorre e pieno di amici. Aveva un matrimonio ben riuscito e dei bimbi graziosi e in salute. Eppure, come alcune belle case o certe navi imponenti, fu attaccato dai tarli. Il primo sintomo evidente è la tendenza a bighellonare furtivamente, a indugiare ai crocevia senza un motivo preciso, a essere sempre diretti da qualche altra parte, a essere in tanti posti piuttosto che in uno preciso, a non fare nulla di concreto ma avere comunque l’intento programmatico di portare a termine una quantità di vaghi doveri l’indomani o il giorno dopo ancora. Una volta notata questa manifestazione del morbo, l’osservatore solitamente l’assocerà a una vaga impressione, propria o riconosciuta, che il paziente stia vivendo un po’ troppo intensamente. Avrà avuto a malapena il tempo di pensarci e di formulare il sospetto “tarli”, quando noterà un peggioramento nell’aspetto del paziente: una certa trasandatezza e un deperimento che non sono né povertà, né sporcizia, né ubriachezza, e nemmeno cattiva salute, ma semplicemente: tarli. A ciò segue un odore come di acque fetide al mattino, accompagnato a una certa disinvoltura nei confronti del denaro; poi un odore di acque fetide a tutte le ore del giorno, e una certa disinvoltura nei confronti di qualsiasi cosa; poi tremolio degli arti, sonnolenza, miseria e infine: lo sgretolamento. Come nel legno, così negli uomini. Il tarlo progredisce a un ritmo incalcolabile. Basta che qualche asse venga trovata infetta e l’intera struttura è condannata. Questo è ciò che accadde all’infelice Horace Kinch, seppellito, alla fine, grazie a una piccola sottoscrizione. Chi lo conosceva non fece in tempo a dire: «Così sano, benestante, con un futuro promettente… solo un poco tarlato!» – che ecco: era già tutto consunto e ridotto in polvere.
Da quel muro senza aperture – irrimediabilmente associato, nelle notti dei miei vagabondaggi, a questa storia fin troppo ordinaria – sceglievo di dirigermi verso il Bethlehem Hospital; in parte perché era di strada nel mio giro diretto a Westminster, in parte perché avevo in mente questa strana fantasia notturna che avrei potuto perseguire meglio in prossimità delle sue mura e della sua cupola. E la strana fantasia era questa: non sono forse i sani e i folli uguali, la notte, quando i sani sognano? Non siamo forse anche noi, di notte, così come loro lo sono di giorno, dell’assurda convinzione di frequentare re e regine, imperatori e imperatrici e personalità varie? Di notte non mescoliamo forse eventi e personaggi, tempi e luoghi, come loro fanno di giorno? Non siamo forse turbati, alle volte, dalle nostre stesse incoerenze notturne? E non cerchiamo magari di dare loro una spiegazione, di giustificarle, esattamente come loro fanno, a volte, con le proprie illusioni a occhi aperti? L’ultima volta che mi trovai in un ospedale come questo, un uomo malato mi disse: «Signore, io spesso sono in grado di volare». Mi vergognai un po’ riflettendo che anch’io ne sono in grado, la notte. Mi disse una donna, nella stessa occasione: «La regina Vittoria viene spesso a cenare da me; e sua maestà ed io mangiamo pesche e maccheroni in camicia da notte e sua altezza reale il principe consorte, a cavallo e in uniforme da feldmaresciallo, ci fa l’onore di essere il terzo commensale». Potevo forse trattenermi dall’arrossire, ricordando i favolosi ricevimenti reali cui io stesso avevo partecipato (la notte), le bizzarre vivande di cui avevo imbandito la tavola e l’eccezionale contegno che avevo dimostrato in quelle illustri occasioni? Mi meraviglio che il grande maestro che tutto sapeva, quando chiamò “sonno” la morte della vita di ogni giorno, non chiamò “sogno” la follia della quotidianità.
A quel punto mi ero lasciato l’ospedale alle spalle e stavo di nuovo andando verso il fiume; nello spazio di un respiro mi ritrovavo sul ponte di Westminster, a deliziare i miei occhi di vagabondo con la vista delle mura esterne del Parlamento Britannico, coronamento di un’istituzione magnifica – lo so – e oggetto di ammirazione per tutte le nazioni circostanti e per tutte le epoche future – non lo metto in dubbio –, ma forse sarebbe meglio che, di tanto in tanto, fosse spronato a lavorare. Una volta uscito in Old Palace Yard, il Palazzo di Giustizia mi teneva compagnia per un quarto d’ora, insinuandomi con deboli sussurri il numero delle persone che in quel momento stava tenendo sveglie, e quanto miserabili e spaventose fossero, a causa sua, le ore piccole di tanti sfortunati in attesa di giudizio. L’Abbazia di Westminster era una buona e deprimente compagnia per un altro quarto d’ora. Mi richiamava alla mente la formidabile processione dei morti tra le sue oscure volte e pilastri. A ogni nuovo secolo più sconcertante dei precedenti. E proprio durante quelle camminate notturne da vagabondo – che includevano anche cimiteri, dove i guardiani giravano tra le tombe a ore prestabilite, segnando con un punzone a che ora erano passati per una determinata tomba – feci una solenne considerazione riguardante l’enorme schiera dei morti appartenenti a una grande e antica città; sul fatto che, se fossero resuscitati durante il sonno dei vivi, in tutte le strade non ci sarebbe più stato lo spazio di uno spillo né modi per i vivi di uscire. Non solo: i vasti eserciti dei morti avrebbero inondato le colline e le valli fuori città e si sarebbero sparsi tutto intorno, solo Dio sa fin dove.
Quando l’orologio di una chiesa suona nell’inerzia della notte, l’orecchio del vagabondo può avvertirlo come il primo, ingannevole segnale di compagnia e salutarlo di conseguenza. Tuttavia, a mano a mano che la vibrazione si allarga in cerchi concentrici, diventando sempre più chiaramente percepibile – e ampliandosi forse all’infinito (come suggeriscono i filosofi) nello spazio eterno – ci si accorge dell’errore, e il senso di solitudine si fa più profondo. Una volta – fu dopo aver lasciato l’Abbazia ed essermi diretto a nord – arrivai in prossimità dei grandi scalini della chiesta di St. Martin mentre l’orologio scoccava le tre. Immediatamente, qualcosa che solo un istante più tardi avrei potuto calpestare senza nemmeno accorgermi si alzò in piedi con un lamento di solitudine e malinconia, strappatogli dal suono della campana, come non ne avevo mai sentiti. Dopodiché restammo lì, faccia a faccia, a guardarci, intimoriti l’uno dall’altro. La creatura sembrava un giovane di vent’anni, con sopracciglia irsute e baffi, e aveva addosso un floscio fagotto di stracci che teneva insieme con una mano. Tremava da capo a piedi, batteva i denti e mentre mi fissava – persecutore, diavolo, fantasma, qualsiasi cosa mi credesse – ringhiava come se stesse per azzannarmi come un cane rabbioso. Poiché intendevo dare a quel mucchio di stracci dei soldi, cercai di trattenerlo – infatti mentre ringhiava e mordeva stava anche indietreggiando – e posai la mia mano sulla sua spalla. Immediatamente, si divincolò fuori dal suo indumento, come il giovane uomo del Nuovo Testamento, lasciandomi immobile, da solo, con i suoi stracci in mano.
Covent Garden Market, durante le mattine di mercato, è una compagnia magnifica. I coltivatori – uomini e ragazzi – addormentati sotto i grossi carri di cavoli, e i cani in allerta, venuti dai dintorni dell’ortomercato e impegnati a sorvegliare il tutto, sono piacevoli come una festa. Eppure, uno dei peggiori spettacoli notturni offerti da Londra è rappresentato proprio dai bambini che scorrazzano da queste parti: dormono nelle ceste, si litigano i rifiuti, si lanciano su qualsiasi oggetto che pensano di poter arraffare con le loro manine da ladruncoli, si gettano sotto carri e carriole, eludono le guardie e producono un perpetuo scalpiccio col ticchettare dei loro piedi nudi sul selciato della piazza. È penoso e crudele paragonare la crescita di corruzione nei frutti della terra, così ben curati e valorizzati, e la crescita di corruzione che si manifesta tra questi monelli, di cui nessuno si occupa, se non per dar loro la caccia.
Il primo caffè ci scappava a Covent Garden, e questo sì che era di grande compagnia. Una compagnia calda, che è ancora meglio. Ci si poteva procurare un pane tostato molto sostanzioso; tuttavia, l’uomo arruffato che lo preparava in una sala interna al locale – senza ancora indosso il grembiule d’ordinanza – era così stordito dal sonno che, tra un caffè con pane tostato e l’altro, tornava a dormire dietro al divisorio, perdendosi in complicate contaminazioni tra il soffocare e il russare. In uno di questi esercizi – uno tra i primi – vicino a Bow street, un mattino, mentre sedevo con il mio scodellino da vagabondo a riflettere su dove andare, arrivò un uomo, con un lungo cappotto color tabacco, scarpe dello stesso colore e, per quanto ne sapevo, null’altro che un cappello, dal quale estrasse un pasticcio di carne freddo, tanto grande da occupare l’intero cappello, così che, nell’estrarlo, la fodera venne fuori con lui. Quest’uomo misterioso era noto per il suo pasticcio, e non appena entrò l’uomo assonnato gli portò una pinta di tè caldo, una piccola pagnotta, un grosso coltello, una forchetta e un piatto. Rimasto da solo nel suo angolino, l’uomo posò il pasticcio sulla tavola vuota, ma, invece di tagliarlo, lo pugnalò dall’alto in basso con il coltello, come fosse un mortale nemico. Poi pulì il coltello con la manica, iniziò a fare a pezzi il pasticcio con le mani e lo divorò tutto. Mi ricordo dell’uomo del pasticcio come dell’individuo più spettrale che io abbia mai incontrato nei miei vagabondaggi. Due volte sono stato in quel posto, e due volte l’ho visto entrare impettito (o forse dovrei dire: come uno che si è appena alzato dal letto e debba farvi ritorno a breve), prendere il suo pasticcio, accoltellarlo, pulire il “pugnale”, e mangiarselo tutto. Era un uomo dall’aspetto cadaverico, anche se con la faccia equina un po’ troppo paonazza. La seconda volta che lo vidi, chiese con voce rauca all’uomo assonnato: «Sono rosso stanotte?» «Lo sei», rispose francamente l’altro. «Mia madre», disse lo spetto, «aveva la faccia rossa e amava bere. Io l’ho guardata a lungo, mentre era nella bara, e così ne ho assimilato il colorito». Per qualche motivo, da allora il pasticcio mi sembrò indigesto e me ne tenni alla larga.
Quando non c’era il mercato, o quando avevo voglia di qualcosa di diverso, il capolinea ferroviario, con l’arrivo della posta mattutina, poteva rivelarsi una compagnia fruttuosa. Ma come la maggior parte della compagnia che si può raccattare in questo mondo, durava pochissimo. I lampioni diffondevano una luce ardente, i facchini uscivano dai loro nascondigli, le carrozze e i carri sferragliavano verso le loro destinazioni (i carri all’ufficio postale erano già in posizione) e infine la campana suonava e il treno faceva il suo rumoroso ingresso in stazione. Ma i passeggeri erano pochi, così come i bagagli, e il tutto era sbrigato con la massima velocità. I vagoni postali, con le loro grandi reti – quasi avessero rastrellato la campagna alla ricerca di corpi – aprivano al volo le loro porte, vomitando odore di lampada, un impiegato esausto, un capotreno in giacca rossa, e i sacchi delle lettere. La locomotiva sbuffava e sudava, come asciugandosi la fronte, mentre dice tra sé che la corsa è fatta. Tempo dieci minuti: i lampioni si spegnevano e io mi ritrovavo solo e senza dimora, di nuovo.
Ora però c’era una mandria di bovini condotti lungo la vicina strada maestra, che volevano (com’è tipico dei bovini) tornare indietro, intrufolarsi tra i muri di pietra e schiacciarsi tra i quindici centimetri di ringhiera e, abbassando le loro teste (com’è ancora tipico dei bovini), come per scaraventare cani immaginari, provocando a loro stessi e a chiunque avesse a che fare con loro una dose di inutili preoccupazioni. Nel frattempo il gas aveva iniziato a impallidire, consapevole dell’imminente arrivo del giorno, per la strada c’erano già alcuni operai, ed esattamente come era solita estinguersi con l’ultimo venditore di pasticci, così la vita diurna iniziava a riaccendersi con i fuochi dei primi venditori di colazioni agli angoli delle strade. Così, passo dopo passo, sempre più rapidamente – tanto che l’ultimo passo sembrava una falcata – il giorno arrivava e mi trovava stanco e pronto a dormire. Non sorprende – pensavo tornando a casa – che nel deserto della notte il vagabondo sia solitario. Sapevo bene dove trovare, all’occorrenza, un po’ di vizio e qualche guaio, ma ne feci sempre a meno: il mio vagabondare aveva a disposizione miglia e miglia da percorrere – e tanto mi bastava – in perfetta solitudine.
[1] «campo del sangue», nome del campo che secondo gli Atti degli Apostoli il Sinedrio di Gerusalemme acquistò da un vasaio con le 30 monete d’argento del tradimento di Giuda.
[2] Nel testo: The Dry Rot in men. Per “dry rot” (putrefazione secca) si intende una malattia del legno causata da un fungo, che digerendone alcuni componenti, ne provoca il marcimento.