Tra il 1982 e il 1983, il Corinthians, una squadra di San Paolo, in Brasile, visse un momento unico e assolutamente inedito nella storia del calcio professionista: i giocatori, rifiutando la guida di un allenatore e con la società in condizioni economiche disastrose, guidati dal carisma e dal talento del loro capitano, un medico barbuto ma tremendamente bravo in mezzo al campo di nome Socrates, si convinsero ad andare avanti da soli, autogestendo la squadra per intero.
Dagli allenamenti alle tattiche di gioco, tutto era deciso per alzata di mano, una testa un voto, dal presidente al capitano con la barba e il vizio del colpo di tacco, dal portiere di riserva fino all’ultimo dei massaggiatori, servivano tutti per la vittoria finale. Una squadra orizzontale, insomma, una vera democrazia — «Democracia Corinthiana» c’era scritto sul retro delle maglie, dove ora siamo abituati a leggere i nomi dei calciatori — una squadra compatta, con un’organizzazione di gioco lenta e meditata, ma condivisa ed efficace.
All’epoca il Brasile era sotto dittatura, il potere dei generali vedeva il calcio come strumento di distrazione di massa e quel che stava accadendo al Corinthians, squadra di origine proletaria e molto fiera, era una cosa che nessuno aveva mai visto. Non fu facile all’inizio — non è mica semplice gestire una squadra senza capi, né gerarchie, senza regole e senza orari, né ritiri — ma i risultati arrivarono e nel 1982 il Corinthians vinse il primo di due campionati paulisti consecutivi.
Una società in difficoltà, una squadra senza allenatore — ma con un capitano — il cui spogliatoio decide di andare avanti e lavorare spalla a spalla, decidendo ogni mossa insieme, passo dopo passo. Da settimana scorsa anche noi — con le debite proporzioni, chiaramente — stiamo lavorando così, in una sorta di democrazia redazionale che fa sì che praticamente ogni scelta sia discussa insieme. Si tratta di un metodo di lavoro inedito per noi — e forse anche per il mondo giornalistico — un metodo che ha fatto sì che i ruoli e le gerarchie lasciassero il posto a un modello orizzontale in cui tutti si preoccupano di tutto, in cui tutti sono a disposizione di tutti.
È sicuramente più faticoso di prima, ma è anche un momento gratificante e lo stiamo vivendo con entusiasmo, e proprio per questo ci piace l’idea di condividerlo. Significa trovarsi presto al mattino — via mail o davanti alla mazzetta dei quotidiani in redazione — per decidere la scaletta, il peso da dare alle notizie, quali argomenti approfondire e quali no. Significa preoccuparsi per uno slot di pubblicazione in attesa di essere riempito, bere duecento caffè al giorno discutendo in cortile l’idea pazza per un articolo, per un’inchiesta o per un’intervista. Significa mettersi a disposizione l’uno dell’altro per rileggere i pezzi di chi ti sta a fianco, per inventarsi un lancio sui social, sacrificare un weekend o chiedere un consulto per l’attacco di un pezzo. Ma significa anche prendersi mezz’ora per giocare a ping pong, pranzare insieme, uscire a cena e trovarsi a pensare a come sarebbe bello organizzare una festa in redazione.
In questa settimana non abbiamo fatto tutto da soli: abbiamo contattato e spiegato la situazione ai tanti blogger che in questi anni hanno scritto sotto la testata de Linkiesta, abbiamo tentato di coinvolgerli, gli abbiamo chiesto aiuto. Abbiamo scritto a vecchi e nuovi contatti, iniziato percorsi di potenziali collaborazioni esterne e confermato quelle che già funzionavano.
Intendiamoci, non vogliamo certo fare una rivoluzione proletaria, vogliamo semplicemente portare avanti il nostro lavoro al meglio in attesa dell’arrivo di un nuovo direttore. E se ancora non possiamo sapere come andrà finire, di una cosa siamo sicuri: ognuno di noi si porterà a casa un’esperienza importante.