TaccolaAcqua, dopo il referendum arrivano i rincari

Acqua, dopo il referendum arrivano i rincari

Acqua: l’autorità c’è, gli investimenti verranno. Ma con essi anche aumenti delle tariffe, tra il 6 e l’8%, di cui oggi pochi sono consapevoli. Così come pochi sanno che, a tre anni dal referendum che ha abolito la possibilità di remunerare il capitale investito, nella sostanza poco è cambiato. Se prima la remunerazione era stata fissata al 7%, oggi è poco più bassa, al 6,1%, e ha un altro nome. Al settore idrico, inoltre, la legge di Stabilità e lo Sblocca Italia intendono cambiare i connotati, con almeno tre interventi che spingono verso l’aggregazione dei servizi locali attorno a pochi grandi operatori. E una norma permetterà l’allungamento delle concessioni. In sette punti, ecco cosa dovrebbe sapere sull’acqua chi ha votato (o scelto di astenersi) ai due referendum del 2011. 

Sull’acqua si può ancora guadagnare (poco meno di prima)

Premessa: la questione è complessa, di seguito troverete una semplificazione ai minimi termini. Il referendum del 2011 ha abolito l’«adeguata remunerazione del capitale investito» al 7%, che era prevista per i gestori dei servizi idrici dal “metodo normalizzato” messo a punto nel 1996 (decreto 1.8.1996 del ministero dei Lavori Pubblici).

Dopo il referendum, la regolazione del settore è stata assegnata all’Autorità dell’energia e gas, che ora si chiama Autorità dell’energia e gas e servizi idrici. L’attività dell’Aeegsi si è concentrata finora nella determinazione di un nuovo sistema di tariffazione. Prima uno transitorio per il 2012 e 2013 e uno definitivo che si applicherà già per il periodo 2014-2015.

Il metodo Aeeg, come ha sintetizzato Antonio Massarutto, professore del dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche all’Università di Udine, su lavoce.info, prevede che agli investimenti che non siano finanziati dalla fiscalità venga applicato un costo standard del capitale, calcolato per ogni periodo regolatorio, sommando al rendimento base dei titoli di Stato (Btp decennali) un premio che tiene conto del rischio specifico di settore. 

Per spiegare il nuovo metodo tariffari idrico, all’autorità sono state necessarie 59 pagine di calcoli. Per chi volesse approfondire, di seguito la spiegazione completa: 

Cosa vorrà dire questo in soldoni, lo spiega Emanuela Cartoni, direttore dell’area Idrico-Sanitaria dell’associazione di categoria Federutility: gli oneri finanziari (con il Btp inserito nel calcolo) sono pari al 4,2% di oneri finanziari, a cui si aggiunge l’1,9 % di oneri fiscali, per un totale del 6,1 per cento. Un valore, quindi, inferiore al 7% precedente. Una stima confermata dal professor Massarutto.

Per il professore, in tutti i casi, «“remunerazione” non vuole dire “si può guadagnare”. È proprio questo l’equivoco che il referendum ha instillato nella testa delle persone! La componente “costo standard del capitale” corrisponde al costo della provvista finanziaria. Se un’azienda mediamente efficiente si finanzia sul mercato, otterrà risorse a quel costo, e dunque farà profitti pari a zero. Guadagnerà extra-profitti solo chi è più efficiente della media». 

Ricorso respinto

Contro il metodo tariffario definito dall’Autorità (in particolare il metodo transitorio deliberato nel dicembre 2012) ha fatto ricorso una serie di associazioni, prime tra tutte l’associazione Acqua Bene Comune e Federconsumatori. Le associazioni contestavano cinque violazioni, ribadendo che per effetto dell’esito del referendum doveva essere esclusa ogni forma – anche surrettizia – di “remunerazione del capitale investito”.

Più nello specifico, si contestavano la violazione del diritto europeo e dell’art. 75 della Costituzione, la modalità di determinazione degli oneri finanziari secondo il modello dei costi standardizzati, l’istituzione del Fondo Nuovi investimenti (FoNi), l’applicazione retroattiva della delibera che pur essendo stata adottata a dicembre 2012, produceva effetti nel biennio 2012-2013.

Per il collegio del Tar, «il principio del cosiddetto full cost recovery (integrale copertura dei costi, ndr) trova esplicito fondamento normativo non solo a livello nazionale ma anche comunitario». Ne discende che «anche dopo il più volte citato referendum abrogativo, il servizio idrico integrato deve essere qualificato come servizio di interesse economico caratterizzato, quanto ai profili tariffari, dalla necessità della copertura integrale dei costi».

Il testo completo della sentenza:

Le associazioni hanno però fatto ricorso al Consiglio di Stato, per cui la vicenda non si può dire conclusa. 

Le tariffe aumenteranno

Quali saranno gli effetti del nuovo sistema di tariffazione? Dalle prime stime, le tariffe per i consumatore aumenteranno tra il 6 e l’8 per cento. Aumenti che saranno superiori rispetto a quanto avveniva prima, come confermano anche da Federutility, precisando che gli aumenti porteranno a maggiori investimenti. Questo perché le nuova tariffazione dell’Aeegsi prevede, a differenza del passato, che le tariffe crescano seguendo direttamente gli investimenti realizzati negli anni precedenti. 

Le tariffe per i consumatori non sono fissate dall’Aeeg direttamente. Sulla base del suo schema sono gli Ambiti territoriali ottimali (che corrispondono all’incirca a uno per provincia) a raccogliere i dati dalle società di gestione sul territorio e, successivamente, a definire un piano di tariffe, per il periodo 2012-2016. L’autorità dà poi l’approvazione definitiva. «Aspettiamoci degli aumenti – commenta Massarutto -. Da simulazioni che ho effettuato emergono incrementi tariffari maggiori rispetto al passato. Ci sono differenze da caso a caso, ma potranno essere tra il 6% e l’8% su base annua». Un aumento di quest’ordine era stato citato in un recente articolo de la Repubblica. «Gli incrementi del 6-8% – aggiunge però il docente dell’Università di Udine – sono quelli che avvengono nel quadriennio 2012-2017; a regime, se si vuole raggiungere gli obiettivi di investimento, gli incrementi saranno ben maggiori, anche se diversi da caso a caso». 

«Le tariffe – aggiunge Massarutto – sono fissate per periodi di quattro anni, sulla base dei costi operativi, per ora su quelli messi nel bilancio 2011. In futuro l’Autorità potrà introdurre meccanismi di efficientamento, per esempio prevedendo dei costi standard a cui gli operatori si dovranno allineare. Questo potrebbe portare riduzioni delle tariffe». 

«Una crescita del 6-8% delle tariffe mi sembra accettabile per i consumatori – commenta un economista esperto di regolazioni e authority, Marco Ponti, professore ordinario di Economia applicata al Politecnico di Milano – e la remunerazione del capitale potrebbe portare a un aumento degli investimenti. Quello che nella regolazione non condivido è che prevede che le Regioni non possano decidere come allocare le risorse pubbliche. Perchè per il trasporto pubblico è prevista una contribuzione del 70% da parte del pubblico e per l’acqua nessuna?». 

Gli investimenti ci saranno 

Questi aumenti tariffari faranno crescere anche gli investimenti? È quello che si aspettano gli operatori e gli osservatori del settore. In primo luogo le tariffe dipenderanno dagli investimenti effettuati e poi, più semplicemente, perché è finito il periodo di incertezza che è seguito al referendum. «C’è stata effettivamente una riduzione degli investimenti dal 2011 – commenta Massarutto -, anche se solo parziale, perché c’erano decisioni di investimento già prese negli anni precedenti. In tutti i casi gli indicatori dicono che in questi anni gli operatori hanno vivacchiato con prestiti a breve termine, mentre adesso le cose si stanno mettendo in carreggiata e potranno avere prestiti anche a lungo termine». 

Secondo i dati di Federutility, attraverso la pubblicazione Blue Book, attualmente in Italia sono 1,6 i miliardi di euro investiti ogni anno, di cui 0,3 provenienti da fondi pubblici. Tuttavia, sottolineano Fondazione Utilitatis e Federutility nel rapporto, il fabbisogno nazionale ammonterebbe a oltre 3 miliardi all’anno, pari a 51 euro per abitante. Una cifra che tuttavia sarebbe ancora lontana dai 4,8 miliardi di euro che secondo il rapporto sarebbero necessari per permettere all’Italia di allinearsi agli standard degli altri Paesi europei. Alla cifra di 5 miliardi annui si potrebbe arrivare, dicono da Federutility, ma per capirlo bisognerà aspettare la relazione di dicembre del presidente dell’Aeegsi. 

Un punto su cui c’è accordo è che gli investimenti effettuati negli scorsi anni sono stati largamente insufficienti, e gli effetti si vedono sulle performance: le perdite di rete, come ha ricostruito Lucia Quaglino su Leoni Blog, sono superiori al 30% (le più elevate d’Europa), il 15% della popolazione non è servito dal sistema fognario, i depuratori sono insufficienti o inesistenti per un italiano su tre, il servizio subisce ancora interruzioni, soprattutto al Sud, dove ci sono i maggiori problemi di scarsità.

Multe Ue in vista

Un effetto di questi mancati investimenti è il rischio di una multa da parte dell’Ue. Il motivo, spiegano da Federutility, è la mancata applicazione della Direttiva 271/91, recepita in Italia nel 1999 e poi nel Testo Unico del 2006, che obbliga gli Stati a trattamenti degli scarichi reflui prima dell’immissione nell’ambiente. Mancano, insomma, adeguati depuratori. La direttiva prevede una tabella di scadenze, a seconda della dimensione degli agglomerati urbani. L’Italia, fanno notare dall’associazione di Confindustria, ha sforato completamente questi tempi e ha già avuto due condanne dalla Corte di Giustizia Europea, nel luglio 2012 e nell’aprile 2014. 

Le multe sarebbero di tre tipi diversi: una in base al Pil, che Federutility ha stimato in 9,9 milioni di euro. Una per ogni giorni di ritardo nel mettersi a regime dopo la pronuncia della sentenza, ancora da stimare ma che potrebbe andare da 11mila euro al giorno fino, dai calcoli di Federutility, a 700mila euro al giorno. Un terzo provvedimento prevede invece la sospensione dei finanziamenti europei. 

Come ha dichiarato Claudio Cosentino, direttore dell’area idrico-ambientale di Federutility, al Fatto Quotidiano, «è molto improbabile che l’Italia riesca a sanare il problema prima dell’arrivo delle sanzioni europee anche perché ad oggi, di fatto, non c’è alcuna opera in fase di realizzazione».

Acqua per tutti, affari per pochi

La crescita dimensionale delle partecipate, prevista dal governo, avrà effetti anche nel settore dell’acqua. Lo scopo è quello di avere aziende sufficientemente robuste da poter sostenere gli investimenti. L’articolo 43 della Legge di Stabilità prevede, nelle bozze circolate informalmente, commentano da Federutility, per gli enti locali che dismettono quote o liquidano società partecipate, lo svincolo dal patto di stabilità per l’impiego delle somme ricavate dalle dismissioni. Entro il 31 marzo 2015 gli enti locali dovranno definire e approvare un piano di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie, da inviare alla Corte dei Conti, con l’indicazione dei risparmi ottenuti. Entro il 31 marzo del 2016 dovranno comunicare alla Corte dei conti se hanno raggiunto l’obiettivo o meno. 

Altre spinte alle fusioni sono arrivate dalla legge Sblocca Italia, che obbliga gli enti locali che ricadono nell’ambito ottimale a partecipare all’ente di governo dell’ambito. La misura, fanno notare da Federutility, era già prevista dalla legge Galli, del 1994, ma ci sono ancora molti enti locali che non partecipano agli Ato e realizzano il servizio in economia. Gli effetti possono essere paradossali, come la presenza di tanti depuratori comunali, dai costi insostenibili, mentre se ne potrebbe realizzare uno per più comuni. Lo Sblocca Italia contiene anche una norma che prevede la fusione di ambiti territoriali piccoli. «Questo – commenta Massarutto – porterà le aziende più piccole a fondersi con quelle più grandi, anche senza una norma esplicita». 

Un effetto della doppia spinta sarà con ogni probabilità una grande serie di acquisizioni di piccole società municipalizzate da parte di grandi operatori regionali o multiregionali: Hera (Emilia Romagna e Triveneto), A2A (Milano e Bologna), Iren (Genova, Torino, Piacenza e Reggio Emilia), Cap Holding (provincia di Milano). Un piano già in fase avanzata, come ha scritto la Repubblica lunedì 20 ottobre, è quello di Acea, società partecipata al 51% dal Comune di Roma (e al 15% da Francesco Gaetano Caltagirone), che intende aggregare e consolidare le municipalizzate di gestione idrica di Toscana e forse Umbria. Si creerebbe un patto di sindacato tra il Comune di Roma e una holding umbro-toscana, conferitaria delle azioni dei Comuni in Acea. 

Quella delle fusioni, secondo Massarutto, non è però necessariamente la soluzione ottimale per garantire la sostenibilità degli investimenti. «Non sono mai stato un fan delle fusioni – commenta -. Pur non credendo allo slogan “piccolo è bello”, credo che con grandi aziende si finiscano per perdere aspetti positivi della gestione nel territorio. Più che la “massa critica”, che mi fa venire in mente l’espressione “too big to fail”, quello che conta è il “risk pooling”, ossia il mettere in comune i rischi. È quello che hanno fatto nel Veneto una decina di società in house di diverse province, riunite nel consorzio Viveracqua, che hanno fatto un bond collettivo, garantito da ciascuna pro-quota». 

Il futuro delle concessioni

Tra le motivazioni che spingono verso l’operazione di Acea, così come verso le altre aggregazioni, c’è la possibilità di puntare a un allungamento delle concessioni negli ambiti. Su questo punto non c’è nulla di ufficiale, solo indiscrezioni sulle bozze della legge di Stabilità. Una conferma arriva da Emanuela Cartoni di Federutility. «Nella legge di Stabilità – commenta – ci sarebbe la possibilità per le Ato di rivedere la lunghezza della concessione, a fronte di aggregazioni o di un cambio di scala degli investimenti. Rimarrebbe però il limite dei 30 anni della durata massima delle concessioni». 

Che conseguenze ci sarebbero in questo caso? «Quando sento parlare di allungamento delle concessioni – commenta Marco Ponti -, alzo non un sopracciglio, ma due. In questi casi gli incumbent (gli operatori che già hanno la concessione, ndr) dicono che gli allungamenti sono necessari per fare gli investimenti. Ma quali investimenti? E a che prezzo? L’Antitrust ha detto che le concessioni sono oggi troppo lunghe, e che sarebbe meglio avere concessioni brevi con subentri che permettano di passare a chi arriva gli ammortamenti rimanenti».