La scuola italiana è un mondo molto complicato, risultato della stratificazione di riforme sempre parziali e spesso contraddittorie. È quindi naturale faticare a comprendere pienamente un piano di riforma ambizioso come quello presentato dal governo Renzi.
Il primo interrogativo è molto semplice: perché dovremmo assumere altri 150 mila insegnanti nella scuola italiana? Le statistiche non ci dicono forse che l’Italia ha già un rapporto studenti/docenti che è più basso della media europea?
Il punto sta nel significato che diamo al verbo “assumere”. Infatti, gran parte dei docenti che sono presenti nelle graduatorie ad esaurimento (d’ora in poi Gae) e che nel 2015 otterranno il ruolo, è già oggi assunta ogni anno, per coprire le cattedre vacanti. L’unica differenza sta nel contratto, che è a tempo determinato e scade a giugno. Più che di assunzioni, quindi, si tratta di stabilizzazioni che andranno a regolarizzare una situazione tanto deplorevole quanto inefficiente.
Indipendentemente dalle intenzioni del Miur, non si elimineranno né i supplenti né tantomeno le supplenze, in quanto gli insegnanti continueranno ad ammalarsi e a chiedere l’aspettativa per maternità. Si darà, però, un duro colpo alla “supplentite”, malattia che colpisce, si badi bene, non tanto i docenti, quanto gli studenti che immancabilmente iniziano la scuola senza molti insegnanti (1 cattedra su 7) e li vedono cambiare quasi ogni anno.
Il secondo interrogativo deriva strettamente dal primo e porta a domandarsi se questo piano di stabilizzazioni sia una soluzione efficiente al problema. Qui qualche dubbio c’è e diventa evidente non appena si abbandona l’analisi generale per quella particolare. Esiste, infatti, una grande eterogeneità tra la distribuzione degli insegnanti oggetto della riforma e quella delle cattedre disponibili, sia a livello geografico, sia di disciplina insegnata. Senza andare troppo nel dettaglio, possiamo dire che le cattedre disponibili sono concentrate soprattutto al Nord e nelle discipline scientifiche, mentre gli insegnanti nelle Gae abbondano al Sud e nelle discipline umanistiche.
Questa eterogeneità costringerà molti insegnanti a compiere un sacrificio: in cambio del posto a tempo indeterminato dovranno accettare di trasferirsi in un’altra provincia o regione e magari di riconvertirsi all’insegnamento di una disciplina diversa, seppure affine, a quella in cui sono abilitati.
C’è poi un’ulteriore domanda: chi insegna oggi su queste cattedre vacanti? Negli ultimi anni, nelle discipline in cui le Gae venivano regolarmente esaurite, le scuole sono state costrette a rivolgersi ad altri docenti, non presenti nelle Gae.
Queste persone, circa 160 mila, in alcuni casi hanno accumulato anche 10-15 anni di servizio e si sono abilitate all’insegnamento tramite percorsi attivati dal Miur (spendendo circa 2500 euro e, nel caso del Tfa, superando una dura selezione a numero chiuso) che, tuttavia, sono stati svolti dopo la chiusura delle Gae (rendendoli quindi esclusi dalla lista dei beneficiari del piano di stabilizzazione).
Questi insegnanti si sentono, comprensibilmente, traditi dal Miur, che prima li ha utilizzati come tappabuchi, poi “li ha fatti abilitare a pagamento” e infine li ha esclusi dalla festa (il piano di stabilizzazioni) lasciando loro soltanto le briciole (i 40 mila posti del concorso 2015). Inoltre, il timore di molti di loro è che, dal prossimo anno, tutti quei posti su cui oggi insegnano con regolarità saranno occupati da “docenti delle Gae” trasferiti e riconvertiti su materia affine. “Si premia il merito – dicono – trasferendo un docente di diritto ed economia e facendogli insegnare informatica, mentre il docente abilitato in informatica, ma escluso dalle Gae, rimane a casa disoccupato?”
Il problema è serio e va affrontato, ma la soluzione non è rinunciare al piano straordinario di assunzioni e di esaurimento delle Gae. La presenza ingombrante delle graduatorie e del doppio canale di reclutamento ha fatto fallire, sino a oggi, ogni tentativo di riforma del reclutamento dei docenti. Per questo, azzerarle è una condizione necessaria per fare tabula rasa dei “diritti acquisiti” pregressi e mettere in piedi un buon metodo di selezione e formazione dei docenti del futuro.
Si tratta di una sanatoria? Solo in parte: molti docenti vedranno semplicemente cambiare il tipo di contratto con cui già lavorano ogni anno. Discrimina i giovani? Probabilmente sì. Chi si è abilitato dopo la chiusura delle Gae è stato sacrificato sull’altare della tutela dei diritti acquisti di chi vi era presente. Purtroppo, quando ci si trova in una situazione così ingarbugliata e raffazzonata, in cui i “diritti” di un gruppo si scontrano con le “aspettative” degli altri, è inevitabile danneggiare qualcuno.
Questa ingiustizia va in qualche modo mitigata ma senza perdere di vista quelli che sono gli obiettivi prioritari: eliminare le Gae e ridurre quanto più possibile la “supplentite”.
Come possiamo agire? Abbandonando il punto di vista dei docenti e assumendo quello di chi dovrebbe essere il vero protagonista della scuola, gli studenti. Solo così è possibile perfezionare il piano di assunzioni senza stravolgerne il contenuto.
Partiamo innanzitutto da ciò di cui ha bisogno uno studente, ovvero di docenti bravi, preparati e stabili nel tempo (la famosa continuità didattica). Ben venga allora una misura che risolva il problema delle supplenze annuali, purché i docenti reclutati siano adeguati al ruolo che andranno a ricoprire.
Per garantire che questo accada una possibile soluzione potrebbe essere di utilizzare il periodo di prova di un anno, a cui ogni docente è sottoposto quando accede al ruolo (e che oggi, anche in caso di grave inadempienza, rimane poco più di una formalità), in modo meno indulgente. Questo strumento potrebbe, infatti, da una parte, evitare che si assumano docenti totalmente inadeguati al compito che dovranno svolgere e, dall’altra, rimpinguare il contingente di posti destinato al concorso per gli abilitati non in Gae.
Non si tratterebbe della soluzione che accontenta tutti ma, come diciamo noi a Torino, piutost’ che nient’ l’è mej piutost.